Partire mi provoca sempre forti emozioni. Che sia per pochi giorni o per un periodo un po’ più lungo, c’è sempre quel momento in cui il cuore sfarfalla dall’eccitazione per la nuova avventura che sto per intraprendere. E c’è anche sempre quell’attimo in cui mi chiedo «ma perché mi sono messa in questa situazione?».
Perché partire?
Questa volta, partire verso un Paese in guerra e devastato da un conflitto che ha coinvolto così tanto anche l’Italia, me lo ha fatto domandare più volte… da non riuscire a dormire serenamente. Da una parte la paura di mettermi in una situazione di pericolo: perché partire? Per che cosa? Per un ideale? Per un desiderio di sentirmi parte di qualcosa di più grande? Per colmare il frustrante sentimento di impotenza?
Dall’altra un senso di incoscienza: io, mamma di tre figli di cui uno ancora piccolo, impegnata già sul territorio in mille cose, dovevo lasciare la famiglia e le mie attività per partecipare ad una “carovana della pace” con persone che non conoscevo, carovana che sarebbe comunque partita, anche senza di me!
Il desiderio di esserci
Stopthewarnow (ferma la guerra adesso), la carovana della pace partita il 1° aprile da Gorizia per raggiungere Leopoli, è stata un’azione di pace nonviolenta a cui hanno partecipato 221 persone, uomini e donne, giovani e meno giovani, religiosi e laici, credenti e non, con 66 mezzi di trasporto carichi di beni di prima necessità incolonnati per un chilometro alla frontiera tra Polonia ed Ucraina. Vederli tutti fermi sul ciglio della strada subito dopo la dogana, le luci accese che illuminavano un tratto di strada immenso, è stato uno spettacolo toccante. C’erano persone importanti, di fama nazionale, e altre che avevano come “bagaglio” il solo desiderio di esserci. Ecco la risposta alla domanda «perché partire?»: per esserci!
Un segno concreto
La fredda mattina del 2 aprile, a pochi chilometri da Leopoli c’era nell’aria e negli sguardi delle persone la consapevolezza che si stava per compiere qualcosa di importante. Al di là dell’idea di portare aiuto in una zona in cui non è poi così semplice arrivare e di poter dare la possibilità ad alcune donne e minori di lasciare l’Ucraina per trovare un po’ di serenità, c’era, c’è stata e c’è tuttora la sensazione di aver lasciato un segno concreto. Forse si chiama “pace”, quella vera, quella che si realizza non con le armi o con buoni pensieri, sporadici atti caritatevoli o frasi d’effetto ma con il semplice e complesso “esserci”: dare la mano alle persone, stare loro vicino, mettersi al loro fianco anche in situazioni di pericolo. E in questo abbraccio di fratelli e sorelle non ti senti più sola, nemmeno tu. Questo non ha prezzo, è qualcosa che ti cambia la vita.
Quale pace?
C’è la pace di “mille colori”, quella un po’ idealizzata che vivi nel pensare di aver difeso un principio e di essere una testimonianza, se non per il mondo intero almeno per le persone incontrate in Ucraina e per quelle che stiamo incontrando e conoscendo adesso.
Ma c’è anche un’altra “pace”, quella che cerchiamo e bramiamo dentro di noi, la pace interiore.
È pace quella che abbiamo dato a Ludmilla, costretta a lasciare il marito alla frontiera e i figli in guerra? È pace quella che ha trovato Yuri, salutando la moglie e tornando indietro nonostante la sua invalidità, da solo, al buio della notte senza soldi e senza casa? È pace quella offerta a Tania che ha dovuto scegliere in cinque minuti se partire o no, se affidarsi a degli sconosciuti abbandonando tutto o lasciare il posto a qualcun altro? C’è pace per quelle ragazze in uniforme alla frontiera che possono, anzi devono, decidere chi può passare e chi no? Ero forse in pace quando sono partita, quando cercavo di dare un senso alle cose, quando sono scappata dai miei dubbi e dalle mie incomprensioni? Ed è pace quella che ho ritrovato nel tornare a casa?
Chissà a quanti «perché?» dovrò ancora rispondere prima di trovare la mia “pace”.
Una voragine da colmare
Non lo so dire con certezza, ma sicuro è che, tornata a casa, non ho avvertito di aver colmato il vuoto e il senso di impotenza; si è aperta piuttosto una voragine, perché quello che abbiamo visto e sentito sulla nostra pelle è qualcosa che ancora per molto tempo non mi farà dormire. Non parlo delle immagini che tutti e tutte noi vediamo e sentiamo ogni giorno sulla tragedia che si sta consumando a casa di popoli vicini, siano russi o ucraini.
Parlo di quel desiderio di ritornare in “prima linea” e stare a fianco delle persone che soffrono; sfidare la guerra per andare a portare un segno, piccolo ma concreto.
Ma anche di quella brutta sensazione che provo nel vedere per la popolazione ucraina in fuga dalla guerra tanta solidarietà da parte delle istituzioni e delle comunità cristiane, mentre richiedenti asilo di altri Paesi non ricevono la stessa attenzione e risposta.
La guerra è guerra ovunque
In ogni parte del mondo la guerra è brutale e le vittime sono vulnerabili allo stesso modo. I profughi cercano sempre rifugio, che arrivino in Italia dal nostro continente o da un altro. Ma la solidarietà non è ancora uguale per tutti e tutte. Di questo ho la certezza.
Ci sono sorelle e fratelli che hanno un diverso colore della pelle ma stanno soffrendo le stesse inaudite violenze: anche loro meritano il nostro aiuto.
L’esperienza condivisa insieme a più di 150 organizzazioni aderenti alla carovana e fatte di nomi e di volti mi ha rivelato che c’è speranza; c’è un’umanità che si coinvolge, che crede nella dignità di ogni persona e che si mette in cammino.
E in questa umanità c’è posto per ognuno e ognuna di noi.