Che cosa pensa il Comitato d’azione della società civile della Dichiarazione presentata al primo Forum di revisione?
Sinceramente non avevamo grandi aspettative: dall’inizio del 2020 il contesto globale si è fortemente deteriorato a causa della pandemia e dei focolai di guerra, ai quali si è aggiunto da alcuni mesi anche quello in Ucraina. Dopo appena un anno dalla ratifica del Patto, questi fattori hanno sensibilmente aggravato i flussi migratori, ai quali i governi non hanno saputo dare risposte adeguate.
La prima bozza della Dichiarazione di avanzamento ha subito suscitato sentimenti contrastanti: da una parte il sollievo nel vedere che la situazione non era così compromessa come temevamo, dall’altra la constatazione che quanto indicato dal Patto non si sta realizzando. Posso dire che c’è stato perfino un regresso, anziché un progresso: la seconda bozza ci ha deluso per il linguaggio adottato e anche per come ha trattato certe questioni sostanziali. Nella terza bozza, poi, l’Algeria ha assunto una posizione di netto contrasto ai diritti delle persone migranti e ha addirittura rigettato temi cruciali; così alcuni Paesi europei, gli Usa e l’Australia hanno potuto proporre mete persino meno ambiziose di quelle originariamente indicate.
I Paesi dei Caraibi e dell’America Latina, come pure il Canada e alcuni Paesi europei, quali il Portogallo, erano orientati a fare molto di più, ma nei negoziati conclusivi Usa e Australia, che neppure sono firmatari del Patto, hanno fatto pressione per una dichiarazione finale più “inclusiva”, considerata accettabile anche dai Paesi che nel 2018 non hanno ratificato il Patto.
In conclusione, la Dichiarazione di avanzamento ha un linguaggio meno incisivo di quello del documento ratificato nel dicembre 2018: sulla detenzione di bambini e bambine il dibattito è stato particolarmente acceso e, quando si è finalmente trovato un accordo, il risultato è stato decisamente inferiore a quello che si poteva sperare quattro anni fa.
In sintesi, i negoziati che hanno portato alla Dichiarazione risentono del clima politico globale: sono il sintomo di un più vasto regresso nelle politiche migratorie.
Ritiene che i limiti posti alla partecipazione della società civile rispecchino l’attuale situazione globale?
Certamente! Lo scorso marzo il Comitato d’azione della società civile ha scritto una lettera di protesta su come il processo di revisione è stato condotto: il segretario generale dell’Onu ha presentato di persona a New York il rapporto sull’attuazione del Patto globale, gli Stati membri hanno potuto avanzare commenti e reazioni, ma a noi è stato permesso solo di seguire la sua presentazione nella televisione dell’Onu.
Secondo il programma di svolgimento dei negoziati, noi potevamo partecipare ad appena due incontri con i facilitatori, rispettivamente all’inizio e alla fine del processo. Purtroppo constatiamo che lo spazio riservato nell’Onu alla società civile si restringe sempre più: nel Dialogo su migrazione e sviluppo del 2013 avevamo nominato i nostri rappresentanti per esprimere le nostre posizioni, mentre nel Forum di revisione del Patto hanno tentato di emarginarci. La nostra protesta, però, ha sortito i suoi effetti: alla fine abbiamo potuto partecipare ai negoziati e incontrare gli Stati membri in modo strutturato; infine, gli incontri aperti sono stati quattro anziché due.
Come Comitato abbiamo interagito con i co-facilitatori e, grazie ai rappresentanti degli Stati che condividono le nostre posizioni, i nostri contributi sono in parte stati recepiti nella versione finale della Dichiarazione di avanzamento.
Nota un parallelismo con quanto avvenuto in passato al Global Forum on Migration & Development (Gfmd)?
In effetti inizialmente anche in quel Forum partecipavano soltanto gli Stati, ma prima del summit abbiamo ottenuto una giornata riservata alla società civile e la nostra posizione è stata esposta in dieci minuti da un nostro rapporteur selezionato dagli Stati…Come se noi non potessimo dire la nostra in autonomia!
Comunque, grazie all’insistenza della società civile, in dieci anni il Gfmd è migliorato e oggi una sola sessione è riservata alle delegazioni dei governi. Sinceramente, visto che il Patto stesso evidenzia l’importanza della società civile nella valutazione dei progressi raggiunti e nella loro attuazione, speravamo che l’Imrf fosse più democratico.
Quali sono le criticità che avete segnalato nella vostra lettera di protesta?
Anzitutto il problema dei visti: l’Onu non se ne occupa, ma per il fatto che l’Imrf si sia svolto a New York, il restrittivo rilascio di visti Usa ha posto grossi limiti di accesso. Almeno 600 rappresentanti della società civile hanno registrato la loro partecipazione al Forum, ma in alcuni Paesi si può attendere fino a due-tre anni per ottenere un visto turistico per gli Usa. I partecipanti venuti dal Medio Oriente e dall’Africa settentrionale si contano sulle dita di una mano.
Questo causa un grave squilibrio nella partecipazione delle ong: il personale di quelle internazionali più grandi, che hanno sede a New York o Ginevra, ottiene subito il visto, mentre il personale delle ong più piccole e locali spesso rimane escluso.
Abbiamo comunque registrato qualche progresso: un fondo viaggio, seppur tardivo, ha facilitato l’acquisto dei biglietti aerei indispensabili a richiedere il visto.
Quali aspettative per il futuro?
L’Imrf non può ridursi a un incontro di governi che si congratulano reciprocamente per quanto hanno fatto, nonostante la pandemia, per realizzare gli obiettivi del Patto. La società civile punta il dito sulla distanza tra quello che si dice e quello che si fa: fino a oggi le condizioni delle persone migranti non sono migliorate molto, e talvolta sono addirittura peggiorate. Attribuirne la responsabilità dei mancati progressi alla pandemia è fuorviante: proprio essa avrebbe potuto costituire un’opportunità per mettere alla prova il Patto, migliorando il coordinamento intergovernativo e aumentando la protezione delle persone migranti più vulnerabili. Così non è stato. Anche oggi, gli esodi massivi da Ucraina, Siria e Venezuela sono gestiti con provvedimenti ad hoc da singoli Paesi, mentre il Patto suggerisce azioni coordinate e condivise.
All’incontro del 16 maggio, che ha visto la partecipazione di tutte le realtà interessate alla revisione del Patto, hanno parlato rappresentanti di migranti, comunità della diaspora, e organizzazioni religiose. L’indomani, alla sessione plenaria di apertura, io ho parlato insieme a una donna migrante, Elana Wong.
Questa Dichiarazione di avanzamento ha molte falle e noi le abbiamo messe in evidenza. Il primo Forum è stato davvero deludente, ma ci stiamo già organizzando per rendere migliore il prossimo.