È la prima volta che tante persone, tutte insieme, si mettono in cammino dai Paesi dell’America Centrale per raggiungere gli Usa. In Europa lo aveva fatto nel 2015 la popolazione siriana in fuga dalla guerra. Un esodo di tali dimensioni rivela che ci sono cause strutturali che obbligano la gente a migrare, e allora non è umano chiudere le frontiere e non affrontare le cause.
La gente della carovana centroamericana cammina in mezzo a rischi e pericoli, ma sarebbe stato peggio rimanere a casa. A Città del Messico il 4 novembre erano a migliaia: sono rimasti per quasi una settimana nello stadio “Magdalena Mixhuca”, poi hanno proseguito verso nord.
Il 25 novembre hanno raggiunto Tijuana, al confine con la California (Usa). Donald Trump aveva dato ordine ai militari di sparare su chi osasse passare la frontiera: ore di agonia. La soluzione, però, è stata tattica: due gruppi si sono diretti a Garita San Ysidro e un altro più a ovest. Donne e bambini hanno proseguito verso Garita El Chaparral, dove il muro di confine presenta dei punti deboli. Ho visto donne esauste, affamate, sofferenti, che si arrampicavano sul muro e si tiravano dietro le figlie e i figli. Raggiunta la barriera di metallo, si aprivano un varco nel filo spinato mentre la Guardia nazionale, l’esercito e tre elicotteri presidiavano la zona.
I proiettili di gomma hanno cominciato a fischiare. Lo spavento è stato terribile, come la crisi respiratoria da gas lacrimogeni: i bambini avevano gli occhi pieni di angoscia.
Questo non è il modo giusto di varcare un confine, ma non ce ne sono altri. Un giovane mi ha detto: «Siamo partiti con una convinzione, o farcela o morire. Morire qui o morire a casa nostra, che differenza fa?».