La mia conoscenza della correlazione tra cambiamento climatico e migrazioni è in divenire, ma posso affermare che questa non consiste in una correlazione deterministica di causa-effetto.
Non è detto che il degrado ambientale induca sempre uno spostamento della popolazione: la migrazione è indotta da molteplici concause e il cambiamento climatico concorre anzitutto a esacerbare disuguaglianze sociali ed economiche che già rendono più vulnerabili alcuni gruppi umani. Diventa allora necessario dare maggiore attenzione alle condizioni di stress che li affliggono e che differiscono anche in relazione a genere, etnia, abitudini culturali, contesto geopolitico e iniziative adottate a livello nazionale e regionale. Più che la condizione di stress ambientale, sono le risorse disponibili a fare la differenza nella scelta di emigrare o di restare.
INTERPRETAZIONI DIFFORMI
Per molti gruppi umani l’emigrazione è una forma di adattamento al cambiamento climatico, mentre i governi nazionali e gli organismi internazionali tendono a considerarla espressione di un fallimento.
Nell’Asia meridionale, il confinamento volto ad arginare la pandemia da covid-19 ha costretto a tornare nei villaggi di origine una moltitudine di coloro che avevano abbandonato aree inospitali per vivere nelle periferie sovraffollate delle grandi città. Senza più lavoro non avevano i mezzi per sopravvivere, ma nelle zone rurali dove hanno fatto ritorno la situazione non era migliore: lo stress ambientale è risultato assolutamente insopportabile.
Nel 2018 la Banca Mondiale ha previsto che entro il 2050 gli effetti del cambiamento climatico causeranno la migrazione di oltre 143 milioni di persone, soprattutto nell’Africa subsahariana, nell’Asia meridionale e in America Latina, ma la mobilità umana può essere sostanzialmente ridotta da iniziative intraprese a livello locale e regionale per sostenere i gruppi più vulnerabili. Pertanto il discorso dovrebbe concentrarsi anzitutto su cosa sia necessario fare per prevenire l’emigrazione forzata di centinaia di milioni di persone.
AZIONI LOCALI E GLOBALI
Esistono opportunità di contenere l’esodo dalle aree rurali grazie ad adattamenti che si stanno già realizzando a livello locale, come piantare mangrovie per contenere l’erosione costiera o adottare colture più resistenti alla siccità, ma esistono anche tendenze globali da considerare. L’urbanizzazione, per esempio, non è determinata soltanto dal degrado delle aree rurali: è il modello di sviluppo che la incoraggia.
Ne deriva che l’esodo verso le città non dovrebbe essere considerato una minaccia: il Quadro di Sendai per la Riduzione del rischio di disastri 2015-2030, adottato dall’Onu nel 2015, e le Linee guida per gli sfollati interni suggeriscono alcune soluzioni a lungo termine, ma si dovrebbe dare più attenzione anche all’Obiettivo di sviluppo sostenibile n. 11: nel rispetto dei diritti umani, si dovrebbero progettare “città sostenibili” dove chi arriva, spinto dal modello economico globale, possa trovare spazio per partecipare, con altri e altre, ai processi che migliorano le condizioni di vita.
La gestione delle migrazioni si concentra generalmente su tre fasi, che interessano sia le zone rurali che quelle urbane:
• prevenire la migrazione climatica forzata con iniziative che garantiscano risorse vitali nei territori più colpiti dal cambiamento climatico;
• renderla sicura quando avviene garantendo adeguata protezione e assistenza a coloro che si spostano;
• garantire soluzioni durature; le persone sfollate a causa del cambiamento climatico possono tornare ai propri villaggi di origine, integrarsi nelle zone di immigrazione o trovare dimora in altri ambiti idonei (ricollocazione).