Le migrazioni ambientali indotte dall’emergenza climatica non si localizzano dove viene costruita una diga o attorno a un vulcano che sputa lava e lapilli: sebbene con modalità diverse, pervadono immense aree del Pianeta. Gli effetti del riscaldamento sull’innalzamento dei mari rimangono ancora poco prevedibili, ma secondo Ibrahim Abubakar della Lancet Countdown Initiative entro 10 anni tutte le zone costiere e le pianure a meno di 2 metri sul livello del mare saranno allagate: dovranno spostarsi 145 milioni di persone. Questi dati risalgono alla sessione del Dialogo internazionale sulle migrazioni svoltasi il 25 maggio 2021, ma tante isolette dell’Oceano Pacifico sono già sommerse; e che dire dei deserti che avanzano in vaste regioni dell’Africa e dell’Asia Centrale?
DIFFERENZE DEGNE DI NOTA
In generale, i disastri causati da tifoni, alluvioni e incendi di vaste proporzioni hanno breve durata e producono esodi ben diversi da quelli indotti da alterazioni che procedono lentamente nel susseguirsi di ricorrenti periodi di siccità o a causa della progressiva infertilità di terre infiltrate dal sale marino. Di solito i primi generano esodi temporanei di massa, mentre i secondi inducono spostamenti numericamente più contenuti ma continuativi nel tempo e, spesso, senza prospettive di ritorno.
Da decenni vaste regioni del Pianeta sono attraversate da migrazioni cospicue che rimangono solitamente all’interno dei confini nazionali o della regione. Fra queste, la foce del Brahmaputra in Bangladesh e molte zone semiaride dell’Africa già lacerate dalla violenza di conflitti locali che, spesso alimentati proprio dalla carenza di acqua e pascoli, aggravano ulteriormente il degrado ambientale che li genera, innescando un insanabile circolo vizioso.
ADATTAMENTO O MITIGAZIONE?
Le politiche per gestire gli effetti del cambiamento climatico si articolano principalmente in due direzioni: l’adattamento, volto a permettere alla popolazione locale di sviluppare una propria resilienza e di sopravvivere in aree degradate, e la mitigazione, volta a contenere il riscaldamento del Pianeta riducendo drasticamente le emissioni di gas serra entro il 2050. Rispetto al 2010, il Rapporto Ipcc 2018 chiedeva un taglio del 35% per le emissioni di metano e di carbonio nero, e denunciava anche i danni da protossido d’azoto e metano prodotti dall’agricoltura e dagli allevamenti intensivi. Con i «contributi volontari nazionali» indicati nel 2015 dall’Accordo di Parigi, 192 Paesi hanno già adottato misure di adattamento e mitigazione; a causa degli elevati costi economici, però, non le hanno ancora attuate. Ne consegue che l’aumento medio di 1,5 °C della temperatura terrestre, che non dovrebbe essere superato, risulta ormai incombente: lo scorso 27 maggio l’Organizzazione meteorologica mondiale dell’Onu ha aumentato al 40% la probabilità che tale limite venga raggiungo entro il 2025.