È inutile cercare, con lo sguardo, qualcosa di conosciuto e vicino nell’accumulo di detriti che si trovano dietro alla GSB, la stazione ferroviaria di Belgrado.
Per mesi e anni, gli edifici abbandonati dietro alla stazione -soprannominati barracks dai migranti- sono stati un rifugio per chi percorreva, o almeno tentava, la rotta balcanica. Ai primi di maggio sono stati sgomberati e distrutti, per lasciare posto ai lavori del Belgrade Waterfront: un imponente progetto di ricostruzione del quartiere Savamala, finanziato dai petrodollari di Eagle Hills.
Lo sgombero era stato annunciato da mesi: doveva cominciare in marzo, poi in aprile, infine è arrivato in maggio. Questo ritardo ha permesso che i migranti, con l’aiuto dei volontari, migliorassero radicalmente le condizioni abitative delle barracks, e moltissimo è stato fatto: Da un pasto quotidiano si è arrivati a tre, la fogna a cielo aperto è stata sostituita dai bagni chimici, le docce, i lavandini. E' stata allestita No Name Kitchen, la cucina libera dove i riufugiati potevano cucinare. Sono stati fatti workshop costruiti con i migranti, le partite a pallone, le stufe a legna. Si è creata cosí una comunità autorganizzata e autosufficiente nella propria gestione.
Con questo non si sta dicendo che la situazione delle barracks fosse la soluzione. La mancanza di tutela dei diritti (soprattutto dei minori), di assistenza sanitaria diffusa, di asilo e di libertà di movimento erano e restano negligenze gravissime della Repubblica Serba, ma più di tutti dell’Unione Europea.
Peró quello che ci insegna l'esperienza delle barracks è che in un contesto di illegalità, prodotta dalla mancanza di un’accoglienza ufficiale e legalmente strutturata, i migranti sono riusciti a difendere la propria dignità alla vita e di esseri umani. Migranti illegali, come illegali sono state tutte le azioni spontanee di solidarietà da parte di volontari liberi. Solidarietà vuol dire soprattutto essere disposti a compromettersi.
Lo sgombero coercitivo delle barracks ha tolto quella dignità ricostruita insieme.
L’obbligatorietà di residenza nei campi governativi serbi toglie la possibiltá di potersi cucinare autonomamente la propria cena, di potersi lavare secondo bisogno, di potersi comprare qualcosa, di muoversi autonomamente, di provare a passare un altro confine. Tutto ciò in nome di una condizione legalizzata. Tutto ciò in virtù della creazione di un ordine e di un controllo pervasivo dei migranti presenti su un territorio, quello serbo, sul quale non sono intenzionati a rimanere. Le condizioni e i requisiti per la solidarietà ora debbono passare per l’approvazione governativa. A che prezzo si è passati dall’illegalità alla legalità? Cosa è stato sacrificato quando si è passati da un’autogestione libera ad una reclusione obbligata?
I corvi rimangono a guardare, sui tetti delle poche strutture risparmiate dalle ruspe, ciò che accade sotto di loro. Durante le distribuzioni di cibo scendevano ad arraffare qualcosa, per poi risalire. Oggi paiono rimanere in perenne attesa. Forse non sanno che quanto è stato tra quelle strutture non tornerà più lì, quella comunità è stata smembrata, ed è inutile cercare tra quella distesa di macerie.
Occorre quindi ripartire, ancora una volta. Tendere a nuovi obiettivi per provare a garantire, per quanti se la vedono negata, la dignità dell'esser liberi.