Nicoletta Ferrara e Antonio calò raccontano come sono cresciuti insieme come coppia, con spirito di “pellegrini” che osano allargare lo spazio della propria tenda. In gioventù, un impegno nell’Azione cattolica per lui, nello scoutismo per lei. Dopo due anni di fidanzamento, si sposano senza preoccuparsi della casa né delle altre sicurezze spesso associate all’impegnativo passo del matrimonio.
Nelle rispettive famiglie, numerose e attente al prossimo, avevano già respirato quell’atmosfera accogliente che pervade oggi la loro casa. Fare spazio a quattro figli è già apertura alla vita, ma aggiungere altri sei “sconosciuti” lo è ancora di più.
Una tavolata domenicale rilassata. Andrea, il figlio maggiore di Antonio e Nicoletta, scherza con Tidjan, della Guinea-Bissau, sulle squadre di calcio. Sembrano proprio fratelli. Ormai si scambiano anche scarpe e magliette. Andrea lavora in agricoltura e partirà presto per incontrare in loco l’Africa: trascorrerà un mese in Tanzania, o forse più.
Una scelta maturata insieme
Ma torniamo a Nicoletta e Antonio: questa famiglia allargata è frutto di scelte, anche sofferte, fatte insieme. «Da tempo vivevamo con grande disagio i naufragi nel Mediterraneo, che la televisione ci portava in casa – ricorda nitidamente lei –. Ci guardavamo in silenzio: cosa potevamo fare? Noi, una semplice famiglia, quattro figli… Ma il 18 aprile 2015, dopo l’ennesimo naufragio, Antonio torna da scuola e rompe il silenzio “Dobbiamo fare qualcosa!”». Nicoletta raccoglie con empatia il fiume di parole che inonda la cucina. Da pochi mesi gustavano la pace di una casa senza i figli più grandi: con loro viveva soltanto l’ultimogenito. «Antonio diceva quello che io stessa sentivo: insieme abbiamo avvertito con chiarezza la necessità di aprire il cuore e la casa», precisa Nicoletta. Un’idea folle, ma impellente. Come una chiamata.
Per questo evitano le obiezioni sagge di famigliari e amici. Ne parlano con il figlio minore, Francesco, di 16 anni, che inaspettatamente accoglie la loro proposta con entusiasmo e con Giovanni, il secondogenito, che è in Svizzera a studiare clavicembalo. Anche lui è entusiasta. La sensibilità a certe situazioni lo porterà, nel 2016, a fare un’esperienza in Africa, a Nairobi, nella baraccopoli di Korogocho. Anche il parroco, don Giovanni Kirschner, li incoraggia.
Il 28 aprile 2015 papa Francesco lancerà l’appello ad aprire le case per fronteggiare l’emergenza, ma Antonio e Nicoletta lo stanno già facendo: si rendono disponibili ad ospitare, per un mese, delle giovani donne, ma a Treviso arrivano soltanto uomini.
Dalla canonica alla famiglia
A fine aprile 2015, con “l’emergenza sbarchi”, la Prefettura di Treviso chiede posti per collocare i profughi. A Povegliano il parroco Kirschner ne ospita trentuno in canonica. Vi rimangono un mese e mezzo. Nicoletta si attiva subito come insegnante di italiano, mentre Antonio frequenta la canonica alla sera. Lei più incline a tessere relazioni, lui più attento alle pratiche burocratiche, donano tempo per incontrare questa umanità in stato di limbo.