I primi umani a insediarsi in queste terre sconfinate sarebbero arrivati circa tredici millenni prima dell’era cristiana dall’Asia attraverso lo stretto di Bering. Nel Cinquecento, all’arrivo dei portoghesi, la terra che loro chiamano Santa Cruz è già abitata da una molteplicità di etnie, fra cui Tupis, Guaraní, Tamoios, Caiapós… Circa 6 milioni di persone, progressivamente sterminate o ridotte in schiavitù dall’alleanza fra monarchia e Chiesa. Per sopravvivere fuggono nella densa foresta equatoriale; chi rimane a contatto dei portoghesi viene forzatamente assimilato: nomi, lingua e rituali indigeni sono severamente vietati.
Primi arrivi dall’Africa
Con la scomparsa dei popoli originari, il lavoro nelle grandi piantagioni e nelle miniere viene garantito da quasi 5 milioni di schiavi strappati alle regioni dell’Africa occidentale, oggi corrispondenti a Guinea, Congo, Benin, Nigeria e Angola: la più numerosa popolazione di origine africana fuori dall’Africa si trova in Brasile. Costretta in condizioni di vita disumane, spesso si ribella e fugge nella foresta. Nascono così i quilombos, villaggi fortificati dove africani e indigeni si uniscono per sottrarsi alla crudeltà dei colonizzatori: il termine quilombo significa appunto “unione”. Negli Stati di Bahia, Pernambuco, Goiás, Mato Grosso, Minas Gerais e Alagoas centinaia di queste comunità conservano tradizioni africane e contribuiscono a generare la cultura afrobrasiliana.
Oltre la colonizzazione
Il periodo coloniale si protrae per più di tre secoli: nel 1822 il Brasile ottiene l’indipendenza dal Portogallo, ma rimane una monarchia fino al 15 novembre 1889. L’abolizione della schiavitù, sancita nel 1888, mina gli interessi dell’oligarchia economica e politica e favorisce l’avvento della Repubblica degli Stati Uniti del Brasile, che nel 1967 diventa la Repubblica Federale del Brasile. Verso la fine dell’Ottocento, l’esportazione di caffè alimenta una marcata crescita economica del Brasile, che attrae forti flussi migratori dall’Europa, soprattutto da Nord Italia e Germania: pur in condizioni di grande precarietà, contribuiscono allo sviluppo industriale del Paese. Nel Novecento l’immigrazione viene anche dall’Asia, con giapponesi, siriani e libanesi. Tra il 1884 e il 1959, arrivano in Brasile quasi cinque milioni di immigrati, di cui 1.507.695 italiani e 1.391.898 portoghesi; ma anche russi, ucraini e polacchi.
Nel buio della dittatura
Nel 1964, con un colpo di Stato, i militari prendono il potere e instaurano 21 anni di dittatura: un periodo di torture, sparizioni e massacri. Anche la Chiesa, che prepara gruppi laici di “fede e politica”, viene perseguitata: vari religiosi e religiose subiscono tortura, esilio e morte.
Il 31 marzo 1983 inizia a Recife e nel Pernambuco il movimento Diretas já, che chiede l’elezione diretta del presidente della repubblica. Nel 1984 la mobilitazione si estende nello Stato di São Paulo: più di un milione e mezzo di persone la sostengono, seguite da molte altre in tutto il Paese. La pressione popolare pone fine alla dittatura dei militari.
La nuova frontiera
Negli anni Settanta la concentrazione terriera riduce alla fame i piccoli agricoltori delle zone rurali del Sud del Paese. Incoraggiati dal governo, molti emigrano in cerca di nuova terra, raggiungendo le regioni amazzoniche. In due decadi la Rondônia è occupata da oltre 600.000 immigrati provenienti da Paraná, São Paulo, Minas Gerais, Mato Grosso ed Espírito Santo. Pervasa da conflitti tra interessi diversi, questa frontiera, prima ancora di essere uno spazio geografico, diventa per intere famiglie luogo simbolico dove realizzare un sogno: piene di speranze e di avidità, appena arrivate si insediano sulla terra per coltivarla e ricreare la loro identità. Ma le tragedie non mancano, proprio per le contese sulla terra.