Lunedì, 30 Marzo 2020 16:17

La “sorpresa” Brasile

Ero in attesa del visto per l’Africa, quel continente che tanto avevo sognato, e la sorpresa fu totale quando, a fine ottobre 1962, venni informata che la settimana seguente sarei dovuta partire per il Brasile, una realtà molto lontana, estranea e praticamente sconosciuta… Che cocente delusione rinunciare all’Africa! Ma la sorpresa non finiva lì

Imbarcate da Genova sulla Giulio Cesare, arriviamo a Rio de Janeiro il 2 dicembre 1962. Con una punta di orgoglio, la sorella che ci accoglie al porto ci dice: «Benvenute nel più grande Paese cattolico del mondo!». Ma allora, penso, noi “missionarie” che cosa siamo venute a fare qui?
Lo compresi un po’ alla volta, quando la realtà di quella terra dove tutto era gigantesco cominciò a mostrarsi in tutta la sua cruda verità. Il Brasile poteva essere il più grande Paese cattolico del mondo, ma era ben lontano dal potersi dire cristiano. Ed era un Paese che ospitava un popolo profondamente umano, che sapeva accogliere e chiedeva in cambio solo amicizia. Come quella, autentica e profonda, che ebbi la fortuna di poter esperimentare e che ancora oggi mi riempie di nostalgia, di profonda saudade

Il mio primo servizio fu nella scuola, ma dagli anni Settanta tutto cambia: il vescovo di São Mateus mi chiede di assumere la responsabilità del “segretariato diocesano” di pastorale.

Un tempo nuovo...
L’antica cittadina di São Mateus, nel Nord dello Espírito Santo, contava allora circa 40.000 abitanti. Fondata dai portoghesi, era collegata all’Oceano Atlantico da un fiume navigabile. Il suo “porto” – ridotto a un quartiere piuttosto malfamato – conservava le tracce di un passato di “gloria”, di orrori e di ignominie. Le rovine del “mercato degli schiavi” non dicevano quanti avevano avuto la sventura di sbarcare e soggiornare là, ma si parla di circa un milione e mezzo, durante i tre secoli in cui la tratta degli schiavi africani era attività legale in Brasile. Come diocesi, invece, São Mateus ha un’origine molto recente. Pio XII la creò nel 1958, assegnandole il Nord dello Espírito Santo e affidandola fin dall’inizio ai Missionari Comboniani. Io mi venivo a trovare, dunque, in una diocesi “giovane”, il cui primo vescovo era stato convocato fin da subito a partecipare del Concilio Vaticano II e ne era tornato entusiasta.

Giunsi a São Mateus all’inizio del 1976. Qualche giorno dopo entrai nei locali riservati a quello che sarebbe diventato uno dei segretariati pastorali più famosi del Brasile, ma io vi trovai soltanto uno stanzone vuoto e polveroso, degli scaffali vuoti e il sogno di un vescovo. “Dom Aldo”, infatti, mi disse che la sua era una Chiesa giovane e piena di vita, e che il segretariato di pastorale doveva aiutarla a crescere secondo quel “nuovo modo di essere Chiesa” caratteristico delle Comunità ecclesiali di base (Ceb) del Brasile.

… e un nuovo modo di essere Chiesa
L’équipe diocesana di coordinamento (vescovo, coordinatore e segretaria) cominciò a funzionare poco dopo. L’assemblea generale di fine anno, formata dal clero (una quindicina di preti), dalle operatrici della pastorale a tempo pieno (suore e laiche consacrate) e da laici e laiche del consiglio pastorale (circa una trentina), decise di procedere con l’evangelizzazione di “tutta la persona” e la formazione delle Ceb.
In piena dittatura militare, il programma da attuare nei due anni successivi per le oltre 700 comunità della diocesi era su “liturgia e vita sociale”: “Penitenza e formazione di una coscienza sociale e politica”.

Il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica non esisteva ancora, così toccò al segretariato provvedere il materiale di formazione per tutti i gruppi di riflessione – o gruppi del Vangelo – che costituivano il tessuto vitale della comunità, i cui animatori, tutti laici e laiche, erano praticamente responsabili della crescita e della qualità della vita ecclesiale. Uomini e donne, giovani e anziani, di etnie diverse, spesso analfabeti o comunque quasi tutti con un grado di istruzione elementare: loro coordinavano la vita comunitaria in tutto quello che non esigeva necessariamente la presenza del presbitero, preparavano ai sacramenti e seguivano bambini, adolescenti, giovani e adulti.

Erano loro i responsabili della liturgia, della pastorale familiare, sociale e giovanile, ed era giusto che ricevessero una formazione personale accurata, con quel “pane” che poi avrebbero condiviso con tutti gli altri fratelli e sorelle. Io divenni specialista nel preparare quel “pane”: fascicoletti tematici che, anno dopo anno, il segretariato di pastorale metteva a disposizione e che condivideva volentieri anche con le altre diocesi che seguivano la stessa linea, tracciata, di volta in volta, dalle conferenze generali del Celam di Medellín, Puebla, Santo Domingo...

La bella sorpresa
Fu proprio questo materiale, preparato per più di dieci anni e diffuso in tutto il Brasile, a regalarmi un giorno la più bella delle sorprese. A seguito del grande esodo rurale indotto dal governo, nella nostra diocesi le cappelle che riunivano le comunità si erano spopolate. Il vescovo, con un tocco di amarezza, diceva di non essere più un “pastore di anime” ma di buoi ed eucalipti. «Dove saranno, adesso, quelli che sono dovuti partire?», mi chiedevo. Un giorno ebbi la risposta in una lettera proveniente dalla Rondônia e firmata da uno dei nostri animatori emigrati. Diceva più o meno così: «Siamo un gruppo di animatori che, con la famiglia, abbiamo dovuto lasciare la diocesi di São Mateus. Qui non abbiamo trovato una comunità e ne sentiamo la mancanza. Per questo, vogliamo formarla noi, ma ci manca il materiale. Per favore, potete mandarci quello che usavamo quando eravamo con voi?».

A quella lettera ne seguirono molte altre dello stesso tenore. Profondamente commossa e sorpresa, compresi che si stava ripetendo, nel Nord del Brasile, quanto era avvenuto al tempo degli apostoli, quando le comunità cristiane si erano diffuse nel bacino mediterraneo.
Al momento dell’addio noi non avevamo pensato di dare il mandato missionario ai nostri animatori che partivano in cerca di una nuova terra, ma loro, coscienti dell’impegno assunto, trovavano naturale e indispensabile far nascere nuove comunità.

Una parola sull’Amazzonia
Ho seguito con molto interesse, ma anche con apprensione, il Sinodo sull’Amazzonia, celebrato a Roma dal 6 al 27 ottobre 2019. Dopo aver vissuto in Brasile sotto una dittatura militare, nutro più timori che speranze sul governo Bolsonaro e vorrei che almeno la Chiesa non deludesse le attese di apertura di “nuovi cammini”. Nuovi oggi, forse, ma non originali, se già ai primordi del cristianesimo tutte le comunità cristiane potevano celebrare l’eucaristia domenicale. Ho sempre trovato profondamente ingiusto che le più sperdute comunità della diocesi di São Mateus, ovvero la maggioranza, potessero celebrare l’eucaristia soltanto poche volte l’anno. Perché queste comunità, che hanno già fatto più di una volta l’esperienza del martirio, non possono celebrare ogni domenica la resurrezione?

Last modified on Lunedì, 30 Marzo 2020 16:28

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