Mi chiamo Marta, ho quasi 29 anni e durante il periodo del Covid-19 sto trascorrendo la mia quarantena a Novara, dove sono cresciuta. Dopo la laurea in Architettura ho trovato lavoro in un’azienda di costruzioni a carattere prettamente commerciale: una realtà dinamica che ogni giorno mi insegna a diventare più responsabile e indipendente, un lavoro che mi appassiona, ma che allo stesso tempo si colloca in un sistema che funziona solo se il ritmo è forse troppo rapido e non ti lascia tanto tempo per pensare. Così lo scorso agosto ho deciso di trascorrere un mese in una piccola regione del Brasile; in fin dei conti, uscire dagli schemi ordinari della vita di tutti i giorni mi sembrava un buon modo per ritrovare quel tempo che permette di guardare da un’altra prospettiva.
Destinazione Brasile
La scelta di partire è nata un po’ per caso, parlando di architettura con un comboniano della comunità di Venegono. Non stavo cercando un luogo particolare quanto una realtà singolare, e quando fratel Antonio mi ha raccontato della sua esperienza a Pequiá non è stato difficile scegliere di partire e ritrovarmi su un aereo in partenza per quel lontano Brasile. Un viaggio di oltre trenta ore mi ha portato in un piccolo villaggio del Maranhão, nel Nord-est del Paese, alle porte della foresta amazzonica. Dal 2004 la sua comunità lotta contro gli “insignificanti effetti collaterali” causati da una mastodontica e disumanizzante attività estrattiva pilotata da Vale, una tra le più grandi multinazionali del settore. Ogni giorno carica un treno di oltre 330 vagoni di polvere di ferro da esportare in tutto il mondo, compresa la nostra bella Italia, lasciando dietro di sé un danno ambientale disastroso.
Subito “a casa”
Abituarsi a quel mondo non è stato molto difficile. Sin dal primo giorno la comunità mi ha accolto come un dono e le incomprensioni linguistiche in qualche modo si risolvevano sempre. La vita nella casa della comunità comboniana di Pequiá è trascorsa in modo estremamente sereno: oltre alla realtà del cantiere – dove mi recavo più spesso con Flavio, laico comboniano –, padre Carlos, padre Marni, fratel Simone e Liliane, moglie di Flavio, hanno trovato sempre il tempo di farmi incontrare con la gente e le realtà del luogo. È grazie a loro se oggi, mentre cerco di raccontare la mia esperienza, sorrido pensando a tutti gli abbracci ricevuti da Dona Fátima, Dona Margarita e tante altre per le quali, invece di essere una sconosciuta venuta da lontano, ero la benvenuta in casa.
Non rassegnarsi al degrado
Che cosa rende speciale questo luogo? Le scorie sporcano l’aria e anneriscono l’acqua, in case dove la polvere di ferro ha cambiato anche il colore dei mobili. Un morador di Pequiá, Edvard, scrive una lettera all’allora presidente Lula e innesca un meccanismo che ha portato la gente e lo spirito comboniano a non rassegnarsi. È davvero bello pensare che tra qualche anno un nuovo villaggio, costruito con i finanziamenti dello Stato brasiliano e della Vale, ospiterà oltre mille persone in case sane con l’aria pulita. È stato completamente progettato dai moradores, i residenti, insieme allo studio di architettura Usina, specializzato in edilizia popolare partecipativa. Si tratta di uno di quei casi eccezionali della storia in cui il principio giuridico di ”chi inquina paga” è stato rispettato: il colosso del ferro è obbligato a pagare un contributo compensativo per lo scempio ambientale.
La meraviglia di un progetto condiviso...
A me interessava vedere la costruzione della nuova Pequiá. Lo studio Usina lavora educando a realizzare un luogo edificato bello, dove le persone vivano in armonia con l’ambiente. Ogni intervento umano ne modifica il contesto; per questo ogni decisione viene presa bilanciando la scelta dei materiali, lo spazio per gli abitanti e il nuovo paesaggio. Compito dell’architetto è usare la sua creatività per immaginare questo scenario, ma spetta alle persone che vi abiteranno completare il sogno e prendersene cura. Ne deriva che il progetto non può essere freddamente realizzato a tavolino da un progettista: è frutto di una lunga, faticosa e allo stesso tempo affascinante interazione tra gli architetti e i futuri moradores, che ora si conoscono anche per nome. Si tratta di un lavoro enorme ma necessario, perché ogni partecipante diventa consapevole della grandezza del progetto e soprattutto della responsabilità civile che ogni abitante ha per farlo diventare realtà.