L’aereo vola veloce da Fiumicino a Nairobi, qui invece ci mettiamo quasi due ore a raggiungere la casa dei missionari della Consolata. Suor Felicina aveva l’indirizzo, ma l’autobus ci portava altrove e siamo arrivate a notte fonda.
Il primo incontro
Per raggiungere Marsabit, a circa 500 chilometri a nord di Nairobi, non c’era ancora la strada, così il vescovo Cavallera ci ha messo a disposizione un piccolo velivolo a 6 posti della missione protestante Maf. Attraversiamo a bassa quota la grande zona desertica e dopo circa due ore scorgiamo la foresta di Marsabit e qualche capanna. La pista di atterraggio è un prato, sul quale ci accolgono monsignor Cavallera, don Paolo Tablino e le festose bambine della scuola elementare che ci guardano stupite: non avevano mai visto delle suore e dovevamo sembrare loro molto strane!
Il vecchio fuoristrada del vescovo ci scorta alla missione, avviata nel 1963 dai preti diocesani di Alba. La casetta è pronta, arredata e pulita: si vede che non è mai stata abitata.
Don Tablino ci rifocilla con zuppa e uovo all’occhio di bue, poi ci scorta al padiglione della scuola elementare Santa Teresa, dove ci accolgono un gruppo di scolare con le due maestre, entrambe kikuyu, Cecilia Wangechi e Mary Mumbi Mariga – quest’ultima diventerà la prima suora missionaria comboniana keniota. Da loro un regalo prezioso: due paia di lenzuola!
Io ero spaesata: il salto dalla cucina del seminario di Crema a quel luogo sperduto era stato troppo improvviso. Grazie a Dio, suor Felicina orienta i miei passi e allevia il mio disagio.
Alla scoperta di Laisamis
Rimango a Marsabit pochi giorni, perché la mia missione è Laisamis. Per raggiungerla, don Tablino intercetta un camion diretto verso il “Kenya”: mi sistemano in cabina, fra l’autista e un soldato. Altri venti sono dietro, nel “reparto merci”, con i fucili spianati. Partiamo il mattino presto: lasciata la fresca foresta ci addentriamo in una immensa pianura brulla: la strada non c’è, ma l’autista sa dove andare! Pietre e spine, fino al primo villaggio, ovvero qualche capanna e due tende militari. I bambini corrono a salutarci, perché il convoglio era una rarità, talvolta attesa per mesi.
Io arrivo a Laisamis e poco dopo parte suor Prassede Zamperini, che diventa referente della neonata comunità comboniana di Marsabit.
All’inizio Laisamis mi è sembrato un luogo invivibile e insicuro. La missione era un po’ fuori dal villaggio, che chiamavano town (città): quattro capanne a forma di fungo coperte di pelli di animale.
L’unico pozzo d’acqua della zona era quello della missione e le condizioni igieniche della popolazione erano drammatiche.
Gli inizi sono sempre difficili
Grazie a suor Clorinda Zarantonello, ho imparato a non giudicare e mi sono coinvolta subito nel servizio alla gente. Sotto un albero c’era già la scuoletta preparatoria per le elementari abbinata al programma alimentare contro la denutrizione infantile. La popolazione locale non coltivava e il cibo principale si riduceva a latte e sangue (salasso del bestiame) o, più raramente, selvaggina. Olio e grano erano preziosi, come i sacchi con cui arrivavano: lavati e colorati, diventavano addirittura “uniformi per la scuola”. A suor Clorinda la creatività non mancava!
Con l’aiuto del parroco, padre Graiff, ho appreso il kiswahili: un’ora di lezione al giorno per due mesi. Poi ho cominciato a insegnare religione nella scuola primaria, i cui maestri avevano la qualifica di aver completato l’equivalente della 2ª media. All’inizio suor Agnese Sabbadini curava le persone in un piccolo dispensario, perché l’ospedale era ancora in costruzione, ma quando è stato ultimato i letti sono rimasti vuoti per mesi, mentre la gente moriva poco lontano: era inconcepibile per loro che la cura richiedesse anche un ambiente pulito. Un giorno rimasi scioccata: una giovane donna era deceduta a cento metri dalla missione, dove si era accampato un villaggio rendille. Dopo averla sepolta sotto un po’ di spine, le persone smontarono le capanne e in tutta fretta partirono. La mattina dopo non c’era più anima viva: soltanto i resti della donna su cui le iene avevano banchettato. Un orrore.
Il dono dell’amicizia
Ma suor Clorinda, attraverso i bambini della seconda elementare, è riuscita a entrare in contatto con la cultura locale: è stata una rivelazione per me e suor Agnese. Anche Teresa, una donna turkana che ci aiutava in casa, ci ha facilitato tantissimo nel conoscere la sua cultura.
Dopo alcuni anni mi sembrava di essere in un luogo meraviglioso!
Dal 1969, quando è stata tracciata la strada sterrata da Isiolo a Moyale, la zona è diventata meno insicura e suor Gabriella Vangelista, infermiera nell’ospedale, ha iniziato a portare il servizio sanitario nei villaggi: la gente lo ha apprezzato molto e con il tempo sono maturate belle relazioni di amicizia. Sono rimasta a Laisamis sei anni.
Che soddisfazione vedere quelle popolazioni emergere lentamente dal loro isolamento e dalla loro povertà; oggi i nostri bambini di quel tempo sono persone istruite e con ruoli di responsabilità, e anche le ragazze sono arrivate a completare la scuola secondaria.