Mi chiamo Francesca, e sono medico specializzando in geriatria nella città di Padova.
“Africa” è una parola evocativa, che racchiude miriadi di immagini diverse. Africa richiama colori forti, una natura intensa e selvaggia, orizzonti senza limiti. Africa è la storia dell’umanità che ci riporta alle origini. Africa parla anche di povertà, di fame, di bambini malnutriti, di guerre. Per me Africa, quando ero piccola, era un grande continente sul mappamondo, lontano e affascinante, pieno di Stati dai nomi strani e dai bordi netti.
L’Africa è rimasta un desiderio nascosto in un angolo della mente per tanti anni, ed è quasi per caso che mi sono imbattuta nello spunto per farlo diventare qualcosa di concreto. Cruciale l’incontro con il gruppo Giovani impegno missionario (Gim) di Padova e con padre Davide e suor Yamileth, comboniano e comboniana. Siamo un gruppo di 14 giovani, e ci accingiamo a partire per quella che per molti di noi è la prima esperienza di “missione”.
In cerca di un “di più”
Nel corso degli incontri di preparazione al viaggio in Etiopia abbiamo confrontato le nostre motivazioni e le nostre aspettative: ciò che fa da filo conduttore è un desiderio comune di “vivere di più”, di amare di più, di metterci in gioco. Nelle nostre vite, che pure sono piene, intense, ricche, sentiamo che manca qualcosa.
Cos’è che cerchiamo? C’è chi vuole fare chiarezza dentro una situazione personale; chi ha deciso di lasciare il telefono a casa per evitare il sovraccarico di informazioni a cui ormai siamo assuefatti; chi ha sete di conoscenza e vuole farsi un’idea con i propri occhi di un mondo che non è il nostro, ma col quale sempre più si sta compenetrando; chi desidera dare un senso più profondo alla propria esistenza. Per me, medico specializzando in geriatria con la passione per il giornalismo scientifico, non è un movente di ordine professionale, quanto un desiderio più ampio di conoscenza, di allargamento degli orizzonti, di uscita dai limiti spaziali e mentali del quotidiano. Tutti siamo accomunati dal medesimo entusiasmo: il 6 agosto si parte!
L’arrivo ad Addis Abeba
I primi giorni nella capitale ci fanno entrare pian piano nell’universo africano, grazie all’accoglienza delle suore, che per noi cucinano cibo italiano ed etiope e ci introducono nella cultura locale. Addis Abeba è tutto un cantiere. Palazzi in costruzione ingabbiati in tortuose impalcature di legno sorgono accanto a baracche di lamiera, strade asfaltate si alternano a tratti fangosi. La città, 10 milioni di abitanti, è piena di gente: gente che va, gente che trasporta merce sulle spalle, gente che siede per terra davanti alla verdura che cerca di vendere, gente che sta semplicemente seduta su uno sgabello, aspettando. Tantissimi lustrascarpe tirano a lucido calzature che dopo pochi passi nel fango saranno esattamente come prima. Incontriamo persone vestite di bianco: sono ortodossi che vanno in chiesa, e che in questi giorni si preparano col digiuno alla solenne festività dell’Assunzione. La gente ci osserva con curiosità e ci tende la mano per un saluto radioso: “Salam!”.
Il cuore dell’esperienza: Mandura
Partiamo all’alba, sotto una pioggia scrosciante, a bordo di un pulmino; le valigie accatastate sul tetto. Destinazione Mandura, piccolo villaggio 540 chilometri a nord-ovest e 1000 metri di altitudine più in basso rispetto ad Addis Abeba.
È la stagione delle piogge e la campagna che si apre fuori dalla città assomiglia più alla brughiera inglese che all’Africa. Si viaggia lentamente, e non solo per le buche nell’asfalto: la strada qui è delle mucche, delle capre, degli asini. La strada è anche delle tante persone che procedono a piedi, e che aumentano di numero a mano a mano che ci avviciniamo a Debre Libanos, dove ci fermiamo per visitare un importante santuario ortodosso. La gente prega in silenzio, immobile, con il libro delle preghiere in mano, a capo chino, scalza. Percepiamo una religiosità solenne, seria, non ostentata, ma personale: la gente ha una fede profonda, ci spiegano, perché sa che le proprie sole forze non sono sufficienti.
Diverse ore dopo approdiamo finalmente a Mandura. Qui il nostro gruppo si divide: otto di noi staranno qui, ospiti delle suore, gli altri sei andranno nella comunità dei comboniani a Gilgel Beles, dieci chilometri più a nord.
Il poco che diventa tanto
Ha avvio così la nostra esperienza missionaria con la comunità dei Gumuz, un popolo di origine sudanese, minoranza per secoli discriminata e trattata dagli stessi etiopi alla stregua di schiavi. Neri neri, inizialmente di poche parole, molto discreti, questa tribù abita i villaggi circostanti la missione e vi fa riferimento. All’interno della missione le suore gestiscono una scuola, un asilo, una piccola clinica.
Il nostro ruolo qui è variegato: da un lato diamo una mano alle suore nell’esecuzione di piccoli lavori di manutenzione, dall’altro svolgiamo alcune attività con bambini e ragazzi. Quattro di noi ogni pomeriggio fanno giochi di animazione e attività ricreative con i bambini più piccoli; altri quattro tengono un corso di inglese a due classi di ragazzi più grandi. Ci improvvisiamo insegnanti e animatori, con un po’ di paura di non esserne all’altezza. E invece tutto diventa rapidamente semplice e naturale. I ragazzi che seguono il corso di inglese non perdono una lezione! Anche se i loro volti non lasciano trasparire particolari reazioni di apprezzamento, Yamileth ci rassicura che la loro stessa presenza quotidiana è la prova più importante del fatto che stiamo facendo un buon lavoro.