Non sono stati pochi i cessate il fuoco e gli accordi di pace sottoscritti tra le fazioni avverse in Sud Sudan, dove la guerra civile è scoppiata dopo soli due anni di indipendenza nazionale. Ieri, a Roma presso la Comunità di Sant’Egidio, è stata annunciato in conferenza stampa che è stata siglata una nuova Dichiarazione sul processo di pace in Sud Sudan. Un testo breve, che si concentra su tre punti: l’entrata in vigore della cessazione delle ostilità dalla mezzanotte del 15 gennaio; l’impegno a continuare il dialogo, al fine di raggiungere una «pace inclusiva e sostenibile», sotto gli auspici di Sant’Egidio e in consultazione con l’Igad (l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo, formata dai Paesi del Corno d’Africa e da quelli confinanti) e con il sostegno delle altre organizzazioni regionali e della comunità internazionale; la garanzia per le agenzie internazionali e le ong di operare al fine di «alleviare la sofferenza della popolazione, conseguenza di anni di conflitto e di catastrofi naturali».
Una novità di questo documento rispetto al passato è che alla sua elaborazione hanno preso parte «per la prima volta» – ha sottolineato il segretario generale di Sant’Egidio, Paolo Impagliazzo – tutte le parti politiche del Sud Sudan, compresa la South Sudan Opposition Movement Alliance (Ssoma): la coalizione di gruppi di opposizione che non aveva aderito all’accordo di pace di Addis Abeba del 2018.
La guerra civile ha avuto inizio il 15 dicembre 2013, quando il presidente Salva Kiir, di etnia dinka – maggioritaria nel Paese e che aveva costituito il nucleo forte del movimento armato Spla, che per ventidue anni aveva combattuto il governo di Khartoum quando il Sudan era ancora uno Stato unico –, accusò il suo vice, Riek Machar, di etnia nuer, un altro veterano della guerra di liberazione, di aver organizzato un colpo di Stato. In un Paese giovanissimo, impreparato ad amministrarsi anche a motivo dell’eredità coloniale (si veda la recente intervista al vescovo di Tombura-Yambio), ancora privo di storia e di coscienza nazionale, la diversità etnica ha giocato da punto di riferimento ed è servita da combustibile per un conflitto di per sé politico.
Il bilancio di sei anni di sanguinoso conflitto è impietoso: per un Paese di 12 milioni di abitanti, i morti si avvicinano ai 400.000; i rifugiati (molti nella vicina Uganda) sono 2 milioni e mezzo, gli sfollati interni, 2 milioni. Dipendono dagli aiuti alimentari, in particolare del Wfp, 6,5 milioni di sud-sudanesi. E sono oltre stimate in oltre 700.000 le armi leggere in mano ai civili. «Ci siamo vergognati – ha detto ieri a Roma Barnaba Marial Benjamin, il capo della delegazione governativa –. Perché il nostro popolo deve soffrire così tanto?».
Confessione di «vergogna» anche da parte del portavoce del Ssomae presidente ad interim del Movimento di liberazione del popolo del Sudan (Splm) Pa’gan Amum Okiech: «È giunto il momento di imparare dagli errori commessi nel passato. In questo processo abbiamo molto da fare e imparare da altri Paesi a fare quel balzo in avanti».
La loro confessione si rivolgeva in primo luogo a papa Francesco, che si è particolarmente preso a cuore le sofferenze del Sud Sudan, anche in forme inedite: lo scorso aprile ha accolto in Vaticano i leader nemici per un ritiro spirituale, predicato da un gesuita nigeriano, in vista di preparare nei cuori la pace per il Paese. E ha concluso quelle giornate chinandosi, con un gesto inaspettato, a baciare i piedi di Kiir e Machar. Parallelamente, la Comunità di Sant’Egidio – forte del successo della sua particolare “diplomazia” che nel 1992 pose termine alla guerra in Mozambico, e che ha in seguito attivato in altre situazioni di conflitto – tesseva i fili che hanno condotto alla Dichiarazione di lunedì. Un lavoro che non potrà certo finire oggi.
Si rende così più probabile la visita in Sud Sudan, pianificata per il 2019 e poi rinviata all’anno in corso, per ragioni di sicurezza sul terreno, dello stesso papa Francesco assieme a Justin Welby, arcivescovo di Canterbury e primate della Chiesa anglicana.
Rispetto ai precedenti tentativi di pace, questa volta c’è un fatto regionale nuovo che fa ben sperare. La dittatura di Omar al-Bashir, ingombrante anche per la nazione che si era staccata dal Sudan che governava da trent’anni, è caduta in seguito a una tenace rivolta di popolo e il nuovo primo ministro, Abdalla Hamdok, si è recato a Juba appena tre settimane dopo la sua nomina, con intenti collaborativi in ordone al raggiungimento della pace in quello che è davvero uno dei Paesi più poveri del mondo: al 186° posto su 189 nella classifica dell’Indice dello sviluppo umano dell’Onu.