Una domanda si pone: qual è l’efficacia del nostro sistema sanitario? È ancora adeguato ai bisogni della popolazione? Quanto riesce davvero a preservare la “salute collettiva”?
Questo articolo non pretende di dare una risposta a quesiti così ampi, ma invita a soffermarsi su alcune questioni di più lungo periodo. A nostro avviso, quando ci si chiede se un sistema funzioni, bisognerebbe guardare se esso sia efficace per i soggetti più deboli.
Un accesso a “ostacoli”
Qui ci occuperemo delle persone immigrate, una categoria che per svariate ragioni ha storicamente alcune specifiche difficoltà di accesso al sistema sanitario.
Ci sono difficoltà legate allo status della persona, cioè al fatto che quella straniera, per accedere al sistema sanitario, deve soggiornare a certe condizioni in Italia e deve dimostrarlo. In alcuni specifici casi l’iscrizione al sistema sanitario è a pagamento, non avviene gratuitamente come per chi ha la cittadinanza italiana: questo costituisce un ostacolo di ordine economico.
Chi non è in regola rispetto al soggiorno in Italia ha accesso solo parziale al servizio sanitario e di conseguenza alle cure mediche.
Seguono gli ostacoli linguistici, cioè quelli legati all’eventuale scarsa padronanza della lingua italiana. Vi sono anche difficoltà culturali, relative alle differenze tra il sistema sanitario del Paese di origine della persona e quello del Paese di arrivo, che generano scarsa conoscenza del funzionamento e delle procedure per l’accesso. Ma anche l’idea di salute, malattia e cura variano da una cultura all’altra, e questo non solo condiziona l’accesso effettivo al servizio sanitario ma anche l’interazione tra medico e paziente. Infine vi sono notevoli barriere informative, cioè casi in cui né i beneficiari né gli operatori sono consapevoli dei diritti delle persone, così che molte opportunità vanno perse.
Dalla salute alla malattia
Dal rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sulla salute dei migranti nella regione europea, che riguarda 53 Paesi, emerge una serie di aspetti significativi. Innanzitutto viene confermato l’effetto “migrante sano”, ovvero chi migra gode tendenzialmente di buona salute, migliore di coloro che già vivono nel Paese di arrivo. Ciò viene confermato in Italia dagli studi dell’Istat. Questo avviene perché la migrazione è un investimento da parte di una famiglia o di un gruppo più allargato, e quindi la scelta cade su chi ha maggiori opportunità di riuscire nel progetto migratorio. Tendenzialmente, invece, lo stato di salute peggiora dopo qualche tempo dall’arrivo, soprattutto se la persona vive in difficili condizioni socio-economiche. In generale, dopo qualche anno aumentano le malattie non trasmissibili come diabete e obesità, malattie cardiovascolari e tumori. In particolare, la diagnosi di tumore per le persone immigrate avviene in stadi più avanzati, rendendo le cure più complesse e di esito incerto.
Nel rapporto vengono analizzate diverse patologie, sia trasmissibili che non, verificando quelle più ricorrenti nella popolazione migrante.
Situazioni degne di nota
Merita particolare attenzione la tubercolosi, malattia infettiva spesso associata all’immigrazione.
La tubercolosi in Italia è una malattia che colpisce più spesso gli stranieri: nel 2016, su 4.032 casi, 2.509 riguardavano persone nate all’estero. Secondo il Ministero della Salute, la tubercolosi è una malattia in costante diminuzione: nel 1995 si registravano 9,5 casi su 100.000 abitanti, mentre nel 2017 erano 6,5, peraltro in un periodo di intensa immigrazione. Ciò significa che il fenomeno migratorio non ha condotto alla diffusione della malattia.
La salute mentale risulta spesso compromessa fra migranti forzati. Questo avviene sia a causa del viaggio, che spesso è traumatico in sé, sia per le condizioni di vita che la persona affronta nel Paese di arrivo. Infine, i lunghi tempi di attesa per la risposta alla domanda di asilo possono costituire un ulteriore fattore di rischio.
Per quanto riguarda specificamente le donne, dal rapporto Oms emerge che le immigrate nella regione europea affrontano gravidanze più complicate e a rischio rispetto alle autoctone, anche se il loro livello di istruzione e lo status socio-economico, così come la presenza di politiche di integrazione nel Paese, possono ridurne l’incidenza.