Nell’Africa occidentale la pandemia ha raggiunto 14 dei 15 Paesi Ecowas: Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo. Su una popolazione totale di poco superiore a 400 milioni, di cui oltre 200 in Nigeria, il 18 giugno la regione contava 53.812 casi ufficialmente accertati, di cui 1.009 decessi e 28.543 guarigioni.
Gestione sanitaria accorta
Facendo tesoro delle raccomandazioni dell’Oms e dell’esperienza di altri Paesi divenuti epicentro della pandemia, l’Africa occidentale è in generale riuscita a gestire abbastanza bene la crisi sanitaria.
Le misure di chiusura e il confinamento sono stati solleciti, diversificati e imposti con decisione in aeroporti, scuole, università, stadi, chiese e moschee. Alcune grandi città sono state messe in quarantena e la stretta sorveglianza è stata talora rafforzata dal coprifuoco. Molto creative le campagne di informazione, che hanno fatto ricorso anche a murales e arte di strada.
È possibile che la carenza di presidi sanitari non permetta diagnosi diffuse e accurate, ma nel complesso il virus non ha oltremodo seminato morte. Molto più deleteri risultano invece i suoi effetti indiretti.
Flussi bloccati
L’Africa occidentale è attraversata da consistenti flussi migratori. Il rapporto dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) pubblicato nell’agosto 2019 parlava di 8,4 milioni di migranti, che per i 2/3 si spostano entro la regione, mentre solo il 7,5 % si dirige in Europa.
La chiusura delle frontiere e i limiti agli spostamenti hanno già ridotto i flussi migratori: fra gennaio e marzo 2020 l’Oim ne ha registrati il 28% in meno rispetto allo stesso periodo del 2019. Molto più marcata la contrazione lungo le principali rotte migratorie: -86% in Niger, -70% in Guinea e -63% in Mali.
I controlli fra Togo e Ghana sono rigorosi, e chi intende varcare la frontiera rimane in quarantena in centri presidiati dalle forze dell’ordine. Anche gli spostamenti giornalieri che alimentano piccole attività commerciali fra i due Paesi sono gravemente penalizzati. Con la frontiera sigillata, c’è comunque chi trova altre rotte per arrivare a destinazione e guadagnarsi il pane.
Effetti sociali disastrosi
Le restrizioni imposte alla mobilità hanno avuto conseguenze disastrose soprattutto per migranti e nomadi. Anche chi vive della coltivazione della terra non ha potuto raggiungere i campi, che di solito si trovano lontano dai villaggi.
Per di più, la pandemia è sopraggiunta proprio in un periodo cruciale, ovvero nei mesi in cui la gente prepara i campi per la semina o si sposta con il bestiame. Sono attività che si ripetono ogni anno nel mese di aprile, che vede l’inizio della principale stagione agricola e della transumanza. I pascoli cominciano a seccare e i pastori vanno in cerca di acqua e foraggio per gli animali. Con la chiusura delle frontiere, queste migrazioni stagionali si sono drasticamente interrotte, come pure l’accesso ai mercati del bestiame e dove procurarsi generi di prima necessità.
Anche i prodotti agricoli raccolti nelle zone rurali non hanno trovato sbocco commerciale e i prezzi dei generi alimentari sono lievitati insieme alla disperazione della gente: molte famiglie hanno visto arrestarsi i trasferimenti di denaro dall’estero, e per molte di loro questi costituiscono l’entrata principale.
Togo, fra inventiva e solidarietà
Con una popolazione prossima a 8,6 milioni, il Togo ha registrato il primo caso di covid-19 il 6 marzo. Dieci giorni dopo, il governo adottava misure per arginare il contagio e chiudeva le frontiere, riservando alcune strutture sanitarie ai pazienti covid. Decretava la chiusura di scuole, università e luoghi di culto su tutto il territorio nazionale, il divieto di assembramenti di più di 50 persone, il blocco delle discoteche e la sospensione di tutte le attività culturali e sportive. È stato dichiarato anche il coprifuoco e alcune città, fra cui Lomé, Tsévié, Kpalimé e Sokodé, sono state sigillate.