Sabato, 28 Aprile 2018 13:49

Quando la “casa” crolla

È il 1998. Stiamo viaggiando da Kapenguria ad Amakuriat su una strada inesistente nella terra semiarida dei Pokot. Il confine fra Kenya e Uganda passa in mezzo a questo popolo di pastori che, nelle zone più remote, custodiscono gelosamente tradizioni ancestrali.

È la mia prima volta fra i Pokot: le scarpate raccontano di un suolo eroso e arido, solcato da una moltitudine di torrenti stagionali. È da un paio d’ore che il fuoristrada arranca, fra pietre e arbusti secchi. È tanto che non piove. Fra i sobbalzi che spaccano la schiena, intravedo dall’auto un gruppo di anziani. Seduti in cerchio, con il loro bastone e i volti rugosi, non si curano del nostro passaggio; la loro attenzione è concentrata su ben altro. «Cosa fanno?», chiedo a chi mi accompagna in questa terra ignota. «Stanno decidendo un sacrificio umano».

Un sacrificio umano?! Che scandalo!

Forse per me, ma non per chi condivide da anni la loro vita. La siccità persisteva da troppo tempo: Tororot, ovvero dio, doveva essere molto contrariato con loro. Qualcuno nella comunità avrà infranto un tabù? La punizione era chiara: Tororot tratteneva la pioggia e li faceva morire.

I sacrifici fatti fino a quel momento, animali minuti prima e più grossi poi, non erano stati sufficienti a placarlo: Tororot continuava a castigare il popolo con la sete. Il bestiame moriva e le razzie per procurarsene altro, dai bellicosi Karimojong dell’Uganda o dai più prossimi Turkana, erano rischiose: potevano versare sangue. Meglio che uno muoia affinché tutto il popolo viva: i Pokot avrebbero sacrificato uno di loro affinché Tororot mandasse la pioggia.

Questa è disperazione. La stessa che segna il volto della giovane del Bangladesh che ci guarda dalla copertina: la sua “casa” è spazzata via dal clima impazzito. Quella che papa Francesco chiama la “casa comune” non riesce più a sostenersi… e a sostenerci.

Da anni la tendenza è crescente: sfollati e migranti in cerca di “casa” sono milioni, perché la loro Terra non offre più sostentamento. Sono le vittime di “eventi meteorologici estremi” o degli “effetti del cambiamento climatico”: a loro, che ancora non hanno alcun riconoscimento internazionale, è dedicato il dossier.

Nel 2011, Christian Parenti iniziava il suo libro con una domanda inquietante: «Chi ha ucciso Ekaru Loruman?», il giovane “guerriero” turkana colpito durante una razzia di bestiame dai Pokot.

Chi ha davvero ucciso Ekaru?

Proprio la crescente siccità che imperversa nell’Africa tropicale. Ondate di calore sempre più prolungate, piogge irregolari, spesso troppo violente per dissetare la terra, destabilizzano interi popoli. Come se non bastasse, anche megadighe e grandi progetti di sfruttamento delle risorse naturali aggravano la situazione, in Africa come altrove.

Il Lago Ciad è quasi una pozzanghera: nel 1960 aveva un’estensione di 22.000 chilometri quadrati, ridotti a 1.700 nel 1985. Oltre due milioni e mezzo di persone si sono già spostate dalla regione, mentre altri nove milioni lo faranno a breve se la desertificazione non si arresta. In Asia Centrale l’immenso Lago Aral, chiamato addirittura “mare”, è pressoché scomparso.

Possono sembrare realtà troppo distanti per disturbare la nostra quiete, eppure anche laghi e fiumi a noi molto prossimi vivono in sofferenza.
Possiamo continuare a minimizzare l’urgenza di cambiare stile di vita per curare la Terra?

E mentre il “Patto globale sulla migrazione” viene discusso dagli Stati, un’altra domanda è d’obbligo: chi sono i profughi ambientali?

… E se domani fossimo noi?

Last modified on Lunedì, 30 Aprile 2018 08:15

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