Non vedo niente nel mio scrutare il reale. Proprio niente. Mi sembra un tempo scuro; i miei occhi sono appannati dalla tristezza di questo “umano” perduto eppure pieno di sé, che si prende cura solo della sua immagine. E la tecnologia lo aiuta, e la politica gli insegna, e la Chiesa sogna di essere l’unica città abitabile per tutti.
Ci sono tante derive nel nostro mondo; derive di esseri umani e trascinamenti di ideologie, o meglio, persone che si ostinano a trascinare ideologie che non sono più tali. Eppure, tutto questo buio non mi distoglie dalla memoria viva della visione di un giovane profeta: Geremia. Nessuno mi può distogliere dal dire che l’unica certezza sarà un ramo di mandorlo, che, nel gioco di parole della lingua originale, significa vigilare. Sono tre che vigilano: il profeta, il mandorlo e la Deità Eterna. Il mandorlo, in ebraico shaqued, e il vigilante: shoqued (io vigilo). Siamo in pieno inverno, un inverno più rigido di altri inverni, ma il mandorlo fiorisce quando fa ancora freddo e la primavera è ancora un sogno. Mentre tutto ancora riposa, quei fiori si accendono e sono capaci di resistere anche sotto zero.
È difficile vigilare. Non vedo niente, ma il mandorlo fiorirà prima di tutti e lo vedrò e mi dirà cosa devo fare.
La vigilanza non è qualcosa di semplice, ha un sapore di profezia. Anche nelle nostre lingue latine vigilare viene da vigile: stare in osservazione, perché avvenga o non avvenga qualcosa, prevenendolo prima. Chi vigila normalmente sta zitto, osserva e ascolta: non può distrarsi con delle parole inutili e false. In spagnolo vigilare è velar, da vela, che è la candela. Il ramo di mandorlo ci ricorda che il risveglio c’è sempre, in ogni periodo dell’anno, in ogni circostanza.
Non un tempo magico deciso da noi o dai nostri cicli liturgici o dai nostri ruoli umanissimi: solo restando svegli si possono vedere non infiniti rami di mandorlo ma “uno solo”. Il testo infatti dice questo: non vedo tanti rami ma uno, uno solo. È strano, perché lungo gli sviluppi storici l’essere umano sembra passare da una trasformazione all’altra. In ogni era imparava qualcosa per sé e il suo habitat. Si mutava con la realtà, e persino la sua esistenza cambiava. Ogni volta imparava di nuovo: non esisteva ripetizione, ma il gusto della ricerca di ciò che di più vero e giusto aveva fatto. Homo abilis, e poi Homo erectus, e poi sapiens, e poi ancora sapiens sapiens, ecc.; a ogni trasformazione corrispondeva un risveglio.
Ora non è così: siamo umanità ripetitiva, soprattutto nell’Occidente, perché la ripetizione non esige nessuna veglia, nessuna vigilanza. Il sapiens sapiens è rimasto a pettinare la sua testa fatta di nozioni e idee. A volte, a malapena riesce a rinnovare le cose, è homo della teknè, passione per la trasformazione delle cose che ha attorno: elabora strumenti, armi, tecnologia per raggiungere lo spazio, per conquistare il primo posto, ma non riesce più a trasformarsi dentro.
Senza queste metamorfosi esistenziali non si vede più il veloce volo dei petali di mandorlo. È strano che la Eterna Deità si serva di un albero sbocciato: forse impareremo a guardare meglio.
Conclusione? Io non ho soluzione, vorrei solo sentirmi chiamare a guardare l’inverno del tempo al di là di ogni prognostico meteorologico. Un mandorlo me lo dirà, perché anche il mandorlo, come ogni profeta e come il divino, è vigile sulla realtà. Il resto è al di là delle mie possibilità: posso solo essere vigilante.
Forse qualcuno è occupato a cercare buoni e cattivi. Io guardo per riuscire a scorgere un ramo di mandorlo, solo un ramo.