Yo soy el cronista irritado
que no escucha la serenata
porque tiene que hacer las cuentas
del siglo verde y su verdura,
del siglo nocturno y su sombra,
del siglo de color de sangre.
Basterebbero questi versi per raccontare le visioni di questi ultimi tempi. Visioni diurne e notturne su insignificanti esseri umani che si affannano per restare in piedi, come si affanna lo spread, anch’esso diventato umano-divino, come noi. Ma ogni parola, anzi ogni lettera, virgola e punto, appaiono oramai stonati, fuori da ogni possibile e saggio aiuto per comprendere la realtà. Dovevamo prevederlo, pensarlo, immaginarlo prima. A cosa mi riferisco? A tutto, a tutto ciò che è successo e sta succedendo sotto i nostri occhi: nel nostro Paese, in Europa, in Israele, in Palestina, in Siria, nello Yemen, negli Stati Uniti, ecc. Cosa succede alla fragilità dell’umano, ma cosa succede anche nei nostri suoli, sottosuoli, pianure, fiumi, montagne e mari e persino nell’aria.
Sì, perché ciò che succede all’essere umano, spesse volte, si ripercuote nella terra e nei cieli, quasi a ripetersi l’antica maledizione piovuta dall’alto senza sapere quale angelo l’augurò: i dolori del parto saranno i dolori del suolo, del sottosuolo, degli animali, ecc. Così ogni violenta pazzia umana lascia i suoi strascichi nell’esistenza di ogni essere vivente, come la coda dell’orribile drago dell’Apocalisse. Questo sembra essere il destino che oggi ci propone il sistema socio-economico che trascina il mondo. Per rendercene conto e dirlo, non bisogna essere amanti del dramma e della tragedia, basta guardare dal basso questa realtà. Basta respirare l’aria che respirano tutti e star fuori da quelle cosche di benpensanti o da qualsiasi oasi di pace.
In proposito, i versetti della poetica di Pablo Neruda risuonano cristallini: scelgo una posizione, scelgo dove collocarmi e non voglio essere annoverata tra gli spettatori di stadi o arene postmoderne, che con la violenza convivono e che di violenza impregnano i loro trattati economici e sociali, quelli di politica estera e quelli delle politiche nazionali. Ma nemmeno dalla parte di frustrati e frustranti vincitori o da quella di coloro che si lavano le mani perché sono puri e dicono di collocarsi all’opposizione del sistema vincitore.
Non voglio nemmeno appartenere a quegli spazi sacri o non sacri, che comunque influenzano il pensiero, i gesti, e ti rendono tutto dogmaticamente facile: la fede, la speranza e la carità. Voglio essere cronista irritata, che non ascolta la serenata. Nessuna serenata, perché non c’è da essere coscientemente sereni se la predestinazione dell’umanità è annunciata da questo modello di sviluppo e il regno è governato da maschi falsi e violenti, pettegoli e aggressori, che giocano con la vita di tutti e di tutto. O chissà che la serenità non esista come prerogativa segreta, che resta nel fondale del nostro essere e soggiace al respiro, per vivere ancora e soffiare su persone e realtà che meritano di essere rianimate e rimesse in piedi. Solo a questo serve la serenità che appoggia nel fondo dell’essere, ma non per stare tranquilli e sicuri. Non per compiacerci delle nostre scelte e non per dire che abbiamo fatto quello che dovevamo fare.
E con lo stesso filo continueremo a tessere questa riflessione, che osa immaginare altre realtà.