Sconcertano le 261 parole – tante sono, compresa la data - del comunicato stampa della Segreteria generale della Conferenza episcopale italiana, la sera dello scorso 26 aprile, a pochi minuti di distanza dalla conferenza stampa del premier Giuseppe Conte, sulle misure di approccio alla fase 2, per la gestione della crisi da Covid-19.
Chi scrive quelle parole rivela non certo il meglio di sé, sul piano delle intenzioni che le agitano e dei contenuti che vogliono trasportare.
Il tono rivendicativo di diritti – fosse anche quello sacrosanto della libertà di culto – non viene messo nella sua giusta correlazione con il linguaggio dei doveri, a tutela di beni fondamentali minacciati, come quello della salute pubblica e del contenimento dell’epidemia da Covid-19.
Questa lezione è scadente, soprattutto quando viene data in un contesto di crisi diffusa, come quella attuale. Sganciare l’universo dei diritti da quello dei doveri è diseducativo e genera lacerazioni ben più profonde, sia nella consapevolezza delle singole persone che nella coscienza di collettività.
Sconcertante è soprattutto il contenuto della comunicazione fatta dalla CEI. C’è un’imbarazzante confusione di piani che rivela il peggio del profilo teologico sotteso. Si dice che “la Chiesa esige di poter riprendere la sua azione pastorale” che sarebbe impedita a motivo del fatto che il provvedimento del governo “esclude arbitrariamente la possibilità di celebrare la Messa con il popolo”. Questa confusione tra i due livelli, quello pastorale e quello liturgico è preoccupante.
Ancor più poi, quando liturgia viene identificato con il marcatore unico della celebrazione della messa. Tutta qui la liturgia?
La chiesa è sì “chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana”, ma sa farlo solo con l’atto fisico della celebrazione di messe? O si domanda sul come educare al senso di lode del suo Signore e di servizio ai fratelli, soprattutto ai più bisognosi? Corti circuiti desolanti si muovono qui e vanno riconosciuti. Questi richiedono un esame serio della propria consapevolezza di chiesa, prima di indurre a scrivere parole forti, rivolto a chi va gestendo un’emergenza senza pari.
E la chiusura del comunicato, con la sua piega sul rapporto tra servizio ai poveri e vita sacramentale cos’è, una minaccia? Se avremo meno messe, potremo fare meno servizio ai poveri? Cioè, nel linguaggio del Giovedì Santo: voi impedite la santa cena e noi riduciamo la lavanda dei piedi?
È triste pensare all'immensa povertà di cultura teologica e di senso civico, alla mancanza di cura per la salute pubblica e di responsabilità per la convivenza con cui la CEI si esprime, allineandosi con chi non rappresenta certo il meglio del paese. E della chiesa.
Probabilmente, anche per quella misura di convenienza di ridurre i già non pochi attriti, il governo rinegozierà la manovra e magari si avrà qualche messa in più.
Ma ci sarà davvero più chiesa?