Il 27 dicembre 2020 iniziava in Italia la vaccinazione contro il covid-19. Era una data simbolica, condivisa con altri Paesi dell’Unione Europea. La prima dose veniva somministrata a una donna dell’Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma, un’infermiera che, lontano dai riflettori e dai talk-show, metteva a rischio la sua salute per garantirla ad altri e altre. Altra azione simbolica: nelle tenebre del “totale confinamento” quella notizia dava speranza, faceva vedere “la luce in fondo al tunnel”.
Il Natale, che la cristianità celebra il 25 dicembre, è una ricorrenza adottata dopo Costantino per associare la “festa del sole”, già celebrata da tanti popoli segnati dal “buio” del solstizio d’inverno, a Gesù di Nazaret. Il Vangelo di Giovanni inizia proprio associando quell’uomo della Galilea, terra senza purezza religiosa, alla vita e alla luce: «In lui era la vita, e la vita era la luce che splende nelle tenebre» (cfr. Gv 1, 4-5).
La festa della luce, che nel sole riprendeva vigore dopo il 21 dicembre, veniva celebrata dai popoli nordici ma anche da quelli del Mediterraneo. A Erice, in Sicilia, l’Occhio di Ra risale all’età del bronzo. Associare le feste in onore della “luce” a Gesù di Nazaret «la luce vera, quella che illumina ogni persona» (cfr. Gv 1,9) è stato un simbolo fortemente espressivo per passare dai “Saturnalia” dell’Impero romano alla “festa della nascita” di Gesù.
I Vangeli non sono cronaca, e quelli della nascita di Gesù lo sono ancor meno.
Quale simbologia era condensata dalle prime comunità cristiane in quelle narrazioni, peraltro alquanto difformi? La genealogia ebraica elencava soltanto i “padri”, ma in quella di Gesù il Vangelo di Matteo menziona anche 5 donne, di cui 3 straniere. In quella “sacra genealogia” appare pure l’incesto, la prostituzione e la violenza del re Davide che si appropria della moglie di Uria l’Ittita.
Nel Vangelo di Luca il messaggio di Dio non trova accoglienza nel sacerdote che officia nel Tempio di Gerusalemme (Lc 1, 5-20) ma la trova in un paese della Galilea, terra impura, presso una giovanissima donna che era semplicemente a casa sua (Lc 1, 26-37).
C’è una simbologia profonda nel Natale cristiano, oggi completamente offuscata dalle montagne di regali e dalle file interminabili di luci intermittenti: la vita non cresce nei fasti del lusso e neppure nella “purezza del tempio”. La vita nasce e cresce in mezzo a relazioni accoglienti, che ne rispettano la fragilità.
Oggi è la fragilità delle donne afghane e di tante altre, annientate da culture che le riducono a oggetto; è la fragilità di popoli disperati che osano attraversare il mare in tempesta nel gelo dell’inverno; è la fragilità di persone malate che non ricevono cura e di persone sole che non ricevono parole amiche.
Per questo è bello augurare “Buon Natale” e ricordare che grazie alla sua “luce” fiorisce anche la PACE!