Nate in America Latina (prima di tutto in Brasile), nel corso degli anni Sessanta, le comunità di base erano state indicate nel Documento di Medellín nel 1968 quale strumento primario di evangelizzazione e rinnovamento ecclesiale per una recezione autentica e inculturata del Vaticano II: si invitava a formare «il maggior numero possibile di comunità ecclesiali nelle parrocchie, specialmente rurali o di emarginazione urbana. Queste comunità devono basarsi sulla parola di Dio e realizzarsi, per quanto è possibile, nella celebrazione eucaristica, sempre in comunione e sotto la direzione del vescovo» (Medellín, 6 III, 13).
Questi elementi sono poi stati ripresi nelle successive Conferenze generali dell’episcopato latinoamericano di Puebla (1979), Santo Domingo (1992), fino ad Aparecida (2007). Le Comunità ecclesiali di base (Ceb) sono «un modo di essere e di esprimere la Chiesa» (Santo Domingo, 225); riprendono, per stile e finalità, quanto avveniva nelle prime comunità cristiane (Aparecida, 178) e costituiscono una delle esperienze più originali di evangelizzazione delle Chiese latinoamericane: sono «centri di evangelizzazione e motori di liberazione e sviluppo» (Puebla, 96) e «cellula iniziale di strutturazione ecclesiale e punto focale della fede e dell’evangelizzazione» (Aparecida, 178, cfr. anche nn. 179-180).
Formazione cristiana e lotta per la giustizia
L’esperienza delle Ceb, che ha coinvolto centinaia di migliaia di fedeli, ha davvero qualificato la vita delle Chiese latinoamericane e determinato la configurazione delle parrocchie e delle diocesi, come pure l’abituale prassi pastorale, anche in Amazzonia. Il Documento finale del Sinodo colloca questa riflessione in rapporto alle sfide della pastorale urbana, ma la riflessione intercetta anche le aree rurali e la foresta: dappertutto si trovano piccole comunità, che ogni domenica si incontrano per una celebrazione liturgica, eucaristica se è presente un prete, o animata da laici, laiche, religiose, diaconi, se non c’è possibilità di presidenza di un presbitero. Sono presenza di Chiesa sul territorio, in ascolto della parola di Dio in stretto collegamento con la lettura della realtà, spazi di formazione a una fede incarnata e testimoniale, capace di annuncio e di denuncia. La lotta per la giustizia e il riconoscimento dei diritti di base per tutti (acqua, casa, energia, cittadinanza) passano – dicono i vescovi – per l’azione capillare svolta dalle comunità ecclesiali, che operano nelle favelas e nelle villas miseria animate da una fede che sa farsi carità politica, cosciente cioè della dimensione sociale del Vangelo.
Papa Francesco ha indicato in Querida Amazonia (n. 96) le comunità di base come esperienze di sinodalità nel cammino evangelizzatore. Citando il Documento di Aparecida (n. 178) ha messo in evidenza in particolare l’apporto che esse hanno dato «alla formazione di cristiani impegnati nella fede, discepoli e missionari del Signore» e ha indicato come condizione imprescindibile da perseguire «integrare la difesa dei diritti sociali con l’annuncio missionario e la spiritualità».
IL CONCILIO, SFIDA SEMPRE ATTUALE
Anche questi brevi passaggi dedicati alle comunità di base durante il Sinodo dei vescovi per l’Amazzonia risultano particolarmente preziosi e sollecitanti per le Chiese europee.
Dal Documento finale del Sinodo, che si riconosce nella volontà, già espressa da Medellín in poi, di accogliere la sfida del Vaticano II a essere Chiesa rinnovata e missionaria, si comprende che ogni riforma della Chiesa deve partire dal principio che genera e rigenera la Chiesa – l’ascolto del Vangelo nelle diverse culture – e deve prevedere forme di vita comunitaria, a dimensione umana, in cui sia possibile a tutti e tutte comunicare nella fede, partecipare attivamente, celebrare in modo fruttuoso. La diffusione della realtà, nuova e insieme antica, delle Ceb nel post-Concilio ha indotto a una revisione delle tradizionali categorie dell’autocoscienza ecclesiale e ha portato a un ripensamento del volto delle parrocchie, che sempre più si sono riconosciute come “comunità di comunità”.
La preferenza accordata alla “base” ha giocato una funzione essenziale per tale ripensamento: una Chiesa popolare, che vive ed è riconoscibile nei luoghi del quotidiano, che è prima di tutto Chiesa dei poveri e per i poveri, realmente universale e inclusiva.