La fase di studio che si è aperta nel corpo ecclesiale, a proposito della “ordinazione diaconale” della donna, è una questione che mette in gioco il “corpo”. Il corpo della Chiesa non può più fare a meno di attribuire autorità anche al corpo femminile. E deve farlo con una grande riflessione, che, senza perdere le ragioni di una “differenziazione dei corpi” (maschili e femminili), sappia riconoscere il mutamento e acquisire le novità che su questo piano il mondo tardo-moderno ha saputo elaborare e diffondere.
Di fronte a queste novità la Chiesa cattolica soffre di un trauma tanto profondo quanto meritevole di revisione. Anche oggi è facile che vengano utilizzati argomenti antichi e nuovi per aggirare la questione o per rimuoverla. Li presento qui sinteticamente quasi a mo’ di schema:
a) motivo sociologico (antico): il corpo femminile non può significare l’autorità;
b) motivo teologico (antico e nuovo): il corpo femminile non può mediare e rappresentare il Signore, né liturgicamente né ecclesialmente;
c) motivo ecclesiologico (nuovo): il principio petrino e il principio mariano sono due vie diverse, che non devono essere confuse o sovrapposte;
d) motivo della carenza di autorità (nuovo): non si può fare oggi ciò che non si è mai fatto prima: la Chiesa non ha il potere di modificare la propria tradizione.
Se riduciamo le questioni ai minimi termini, queste sono le argomentazioni fondamentali che negano la possibilità di “ordinare” donne al ministero diaconale. Io vorrei qui proporre una serie di considerazioni che possono facilmente superare ciascuno di questi impedimenti e dimostrare che questi “giudizi” riposano su pesanti “pregiudizi”.
Chi ha l’onere della prova?
Nelle discussioni intorno al tema “ordinazione delle donne” circola una versione “di comodo” che deve essere superata. Questa versione del problema argomenta così: se si vogliono ordinare al ministero del diaconato anche le donne, occorre poter dimostrare che la Chiesa ne ha il potere. Sembra una posizione di buon senso, ma in tal modo l’onere della prova viene posto a carico di chi vuole proporre questa “novità”.
In realtà questo modo di pensare è viziato da un errore di fondo. Non si tratta di dimostrare il potere della Chiesa, ma di dimostrare l’impedimento a tale potere, con argomenti davvero convincenti. Se la Chiesa vuole ripetere oggi di “non avere il potere di ordinare una donna al ministero del diaconato”, dovrebbe fornire argomenti convincenti. I quattro argomenti che ho prima ricordato non lo sono, perché presuppongono un’antropologia, una cristologia, un’ecclesiologia e una concezione dell’autorità che non onorano i criteri di giudizio della Chiesa postconciliare.
L’autorità
nella “societas inaequalis”
La Chiesa non deve attendere che si dimostri la “ordinabilità della donna al ministero”. Può solo attendere che si dimostri in modo convincente la sua non ordinabilità. Ma se nessuno saprà convincere, se nessuno troverà l’argomento decisivo, sarà ovvio che valga per la donna ciò che vale per l’uomo.
Questo è il “nuovo spirito” del mondo tardo-moderno, da cui la Chiesa per troppo tempo si è mantenuta estranea, nonostante ne fosse stata obiettiva ispiratrice: da quando il mondo ha acquisito il principio di eguaglianza, occorre giustificare non l’eguaglianza, ma la differenza.
Nell’antica societas inaequalis – che arriva fino al Concilio Vaticano II – è l’eguaglianza a dover essere dimostrata. Qualcuno oggi si attende che sia dimostrata “la possibilità della donna di ricevere l’ordine del diaconato”: ma chi pensa così ragiona nell’orizzonte di una societas inaequalis.
Se la Chiesa è societas aequalis, si capovolge l’onere della prova. Non è più la donna a dover dimostrare di poter ricevere l’ordinazione, ma è la “non donna” a dover dimostrare che vi è un impedimento all’ordinazione per il solo fatto che il soggetto sia “donna”.
I contenuti e le forme
degli argomenti classici
Un altro punto su cui occorre fermare l’attenzione è la differenza tra il contenuto degli “argomenti classici” e la “forma” di questi. Mi spiego. Se consideriamo la grande teologia di san Tommaso d’Aquino, in essa vediamo all’opera un criterio di giudizio sul “ministero” che è profondamente legato alle “forme di esercizio dell’autorità” tipiche del tempo di Tommaso.
Tommaso non si vergogna di usare criteri sociologici per valutare la pertinenza di un’idea teologica. E lo fa in alcuni casi proprio in riferimento all’esercizio femminile della autorità:
• osserva la società del suo tempo e nota che in essa la donna non ha alcuna supremazia di potere;
• rilegge la tradizione teologica e riscontra che «in Cristo non c’è più né maschio né femmina».
Questi due principi, nella loro diversità, servono a Tommaso per una mediazione sapiente, che gli permette di attribuire alla donna un “ministero residuale” solo nel battesimo e null’altro. Ma Tommaso introduce un “riferimento sociale e teologico” che mantiene aperto il sistema.
I limiti della Chiesa sono in rapporto strutturale con i limiti della società e con il compimento escatologico. Quando la storia cambia la società, la Chiesa non può guardare il fenomeno come se la cosa non la riguardasse. Questo atteggiamento renderebbe impossibile quel discernimento che oggi è divenuto urgente e improcrastinabile.
La “gerarchia delle verità”
anche nel ministero ordinato
Tra le reazioni che solitamente vengono a opporsi alla domanda sulla possibilità del diaconato femminile si ascolta, soprattutto nei tempi recenti, una considerazione che merita attenzione. Si dice: non si può far dipendere il ministero dai diritti del soggetto. Questa argomentazione – la cui trama antimodernistica è del tutto evidente – era già stata utilizzata per il concetto di communio, sospettato di essere una sorta di “grimaldello” da usare contro la “costituzione gerarchica della Chiesa”.
E così si sosterrebbe che anche la domanda di un diaconato femminile risponderebbe non alla logica del ministero ordinato oggettivo, ma alla domanda di potere di soggetti (nel caso di soggetti femminili).
In realtà, questa considerazione trascura totalmente che la questione dei diritti non è “esterna”, ma “interna” alla storia della salvezza: ufficialmente a partire da Dignitatis humanae e contro la “demonizzazione dei diritti”, così tipica di un mondo sempre tentato di confondere i propri privilegi con i “diritti di Dio”.
Uno sguardo in prospettiva
Come dicevo all’inizio, papa Francesco ha aperto ufficialmente una fase di studio. Lo studio ha esigenze del tutto particolari. Una di queste è la capacità di porre le questioni più appropriate.
La Commissione di studio non è chiamata a dare risposte nuove a domande vecchie, ma a formulare questioni nuove su esperienze antiche. Perché la Chiesa possa rinnovare la propria antropologia del corpo maschile e femminile, possa riconoscere una “rappresentanza” del corpo di Cristo attribuita anche alle donne, possa elaborare una ecclesiologia che non proietti ideologicamente su Pietro e su Maria i pregiudizi della storia e, infine, possa riconoscere a sé stessa l’autorità di stare nella tradizione con una fedeltà che includa la libertà del discernimento.
Da questo punto di vista la questione dell’ordinazione diaconale della donna potrebbe costituire un banco di prova utilissimo per rivedere alcuni luoghi comuni di una Chiesa traumatizzata dal mondo moderno e incapace di discernere, in mezzo ai suoi abissi, le perle preziose di cui tutti oggi sono diventati consapevoli, e che la Chiesa cattolica tende spesso a rileggere con strumenti teorici vecchi di almeno duecento anni.
Se studio deve essere, che studio autentico sia. Per il bene della tradizione. Ma non come in un museo, ma come in un giardino. Non solo per conservare, ma per far fiorire.