Le innovazioni del Trattato di Lisbona hanno creato l’illusione che il voto a maggioranza all’interno del Consiglio e l’obbligo di tener conto dei risultati delle elezioni per designare il candidato alla presidenza della Commissione fossero sufficienti da soli per creare una democrazia sovranazionale fondata sull’alternanza e su partiti veramente europei. È bastata la mancata approvazione delle liste transnazionali, che di quella procedura sarebbero state il logico complemento, per far saltare quell’illusione.
Già in campagna elettorale, infatti, si sapeva che i partiti pro-europei sarebbero stati condannati ad allearsi e che la vera sfida non era tra gli Spitzenkandidaten (capilista scelti dai partiti), ma tra nazionalisti ed europeisti.
Vinta quella battaglia e marginalizzati gli euroscettici e i cosiddetti sovranisti, all’interno del Parlamento non si è trovato alcun accordo programmatico sulla cui base eleggere poi il presidente della Commissione. Il Consiglio ha avuto così mano libera nel proporre il suo pacchetto di nomine, bilanciando il diverso peso degli Stati, dei partiti e, per la prima volta, anche dei generi.
Compromessi fragili
Il voto con cui il Parlamento ha ratificato la scelta di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione ha rivelato tutta la gracilità dei compromessi politici e istituzionali su cui si regge l’Unione. La candidata è infatti passata con una risicata maggioranza, in cui è stato determinante il voto di alcuni deputati euroscettici del gruppo Ecr e di altri parlamentari non iscritti. Inoltre, nel momento in cui un partito dovrebbe dimostrare il massimo della compattezza e dell’unità, ovvero il momento di votare l’esecutivo, i Socialisti e Democratici si sono spaccati in larga parte secondo appartenenze nazionali, rivelando quanto i partiti europei siano ancora una sommatoria di partiti nazionali. E i Verdi, che costituiscono forse il partito più federalista, hanno espresso un voto contrario, sancendo in tal modo la rottura del fronte europeista.
Proposte innovative
Non si possono negare, tuttavia, né il fatto che von der Leyen abbia negoziato a lungo con le famiglie politiche pro europee, verso cui si è poi orientata con fermezza per avere la maggioranza, né che il suo discorso e le sue linee programmatiche contengano delle proposte innovative o significative.
La presidente ha parlato di un Green Deal europeo per rendere il nostro continente a impatto zero entro il 2050, attivando ben mille miliardi di investimenti per la riconversione ecologica e imponendo una Carbon border tax (tassa per le merci che entrano sul mercato europeo senza rispettare le norme ecologiche imposte alle produzioni nella Ue); di una riassicurazione europea contro la disoccupazione e di un salario minimo europeo; di una forte spinta all’innovazione digitale e dell’introduzione di una Web tax; di rafforzare la politica migratoria comune, inclusa la revisione delle procedure di Dublino in materia di immigrazione e asilo; di nuove iniziative per un’Unione Europea della difesa; di concedere l’iniziativa legislativa al Parlamento durante il suo mandato; di abolire l’unanimità in materie come il clima, l’energia, gli affari sociali e la fiscalità.
Alternative necessarie
Resta il problema di costruire attorno a questo programma una chiara maggioranza che lo sostenga in Parlamento, ma soprattutto restano su molti temi programmatici le divisioni tra gli Stati. Inoltre il bilancio europeo rimane del tutto inadeguato per raggiungere obiettivi così ambiziosi. Forse avremo un quadro più chiaro e realistico quando saranno nominati tutti i commissari e sarà presentato un programma dettagliato per l’intera legislatura.
Fin da ora, però, è necessario far passare l’idea che l’Unione ha bisogno, più che di un’alternanza, di un’alternativa. Alternativa all’attuale assetto istituzionale, largamente improntato al primato del metodo intergovernativo. Alternativa all’attuale impotenza sulla scena mondiale, che corre il rischio di lasciare il Vecchio Continente alla mercé di vecchie e nuove potenze. Alternativa, insomma, a uno status quo che condanna l’Europa al declino e all’irrilevanza.