Ci sono dei momenti in cui è necessario prendere una posizione, anche se in un campo di battaglia disegnato in modo un po’ maldestro, come quello attivato attorno al DdL Zan: da una parte la giusta e sacrosanta istanza di eliminare ogni forma di discriminazione e di violenza omotransfobiche, dall’altro la reazione di chi teme decostruzioni e disordini simbolici.
In realtà le cose sono molto più complesse di così e richiederebbero delle precisazioni filosofiche e teologiche. A sottolineare la complessità si prova una strana sensazione e si impone subito una domanda inquietante: vi sembra il caso di mettere i puntini sulle i, quando ci sono di mezzo storie insultate, disprezzate e violentate?
Viene in mente allora l’immagine usata da Popper per certi modi di fare filosofia, quando continuamente ci si preoccupa di strofinare gli occhiali per renderli lindi e trasparenti, senza mai inforcarli per vedere che cosa accade intorno a noi. Oppure ci si sente come Piero nella canzone di De Andrè, che mentre si sofferma a pensare alla situazione e al destino dell’uomo che ha di fronte, vestito con la divisa del nemico, si ritrova improvvisamente a terra e poi sepolto in un campo di grano.
Tuttavia è scaduto il tempo per gli indugi: sono assolutamente insopportabili e inaccettabili le cattiverie, le chiusure, gli insulti che feriscono le sorelle e i fratelli omosessuali o che affrontano difficili e delicati percorsi psicologici e sanitari per sintonizzarsi con sé stessi e con la loro esperienza intima. È ora di scegliere da che parte stare. Non dalla parte di chi giudica senza capire, non dalla parte di chi vuole controllare la grazia di Dio, non dalla parte di chi teme che le differenze possano corrompere il bene, non dalla parte di una cultura che misura l’amore senza mai riferirsi alla disponibilità di dare la vita per coloro a cui vogliamo bene.
I dibattiti a cui abbiamo assistito finora sembrano schiacciati da una concezione misera di pluralità e da una cultura affettiva senza differenze, finendo per mancare l’essenziale: si tratta di nominare come fuori legge tutto ciò che offende, discrimina, emargina e violenta le storie d’amore impreviste, così come abbiamo imparato a condannare tutto ciò che denigra e umilia le persone disabili o le donne (almeno sulla carta). E in questa discussione così difficile, anche noi forse fatichiamo a trovare le parole con le quali esprimere ciò che ci sta a cuore, che è la vita che cerca di fiorire e di donarsi nella sua ricchezza di forme e di differenze.
Le parole però vanno trovate, magari imperfette e fragili ma chiare nel significato di comunione con le sorelle e i fratelli omosessuali e transessuali che ora hanno bisogno di tutta la solidarietà possibile. Una volta espressa questa nostra chiara posizione di fondo, ci permettiamo anche di muovere alcune critiche al linguaggio che la proposta di legge ha assunto: è un linguaggio problematico per come usa le categorie di sesso e di genere e per l’antropologia sottesa al testo, che tende a separare, anziché a distinguere, il piano dell’esperienza corporea sessuata da quella più propriamente interpretativa.
È come se non si riuscisse a cogliere che l’esperienza corporea è già fin dall’inizio psichica e che l’esperienza interpretativa, personale e sociale insieme, è fin dall’inizio in qualche modo radicata nei corpi. Dovremmo sapere – le donne solitamente lo sanno – che la differenza sessuale è il segno della finitezza di ogni vita che viene al mondo, e che questa differenza è al contempo biologica, psichica, simbolica e sociale e che con tutti questi tratti essa si fa storia. Invece ancora non lo abbiamo capito. È dunque questo lavoro ermeneutico a essere urgente e dovremmo iniziare a farlo nelle scuole, nelle nostre catechesi, nelle nostre famiglie. L’omotransfobia si evita così, con un’educazione alle differenze.
Nel frattempo, mentre questa cultura delle differenze è affaticata o impedita da mille ostacoli, non c’è dubbio che ogni resistenza frontale a questa proposta di legge a firma Zan si riveli da sé come una forma di inospitalità verso le vite. Per questo, essa non può che risuonare antievangelica.
Così, con la consapevolezza della complessità della questione e nell’avvertenza di alcune carenze linguistiche e simboliche dei discorsi in gioco, condividiamo la lettera del Progetto Gionata che chiede l’approvazione del decreto, lasciando a ciascuna socia e a ciascun socio la decisione di sottoscriverla.
CTI, Consiglio di Presidenza