Dal 1951 il 20 giugno ricorre ogni anno la Giornata Mondiale del Rifugiato. È stata istituita per commemorare la Convenzione di Ginevra promulgata quell’anno sul diritto d’asilo, ovvero sul diritto di ogni persona, «perseguitata per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche», a trovare un rifugio.
La definizione di “rifugiato” è però in rielaborazione: l’evolversi della storia dei popoli e l’aggravarsi dell’emergenza climatica l’hanno resa obsoleta.
Oggi si preferisce parlare di “migrazioni forzate”, indotte da persecuzioni e da guerre ma anche da eventi climatici estremi, improvvisi o a lenta insorgenza. In termini numerici, per ogni persona che fugge da una crisi politica ce ne sono tre costrette a lasciare una terra diventata invivibile.
A metà giugno di quest’anno, il portale dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati* segnalava diffuse crisi migratorie in Africa subsahariana e Medio Oriente, in Afghanistan, in America centrale, sul confine Venezuela/Colombia e tra Bangladesh e Myanmar.
Da notare, però, che nella regione subsahariana che include Ciad, Niger, Mali e Burkina Faso, su oltre 4 milioni di persone sfollate e in cerca di “rifugio” poco meno di 900.000 erano registrate come “rifugiate/richiedenti asilo”; più di 3 milioni erano genericamente etichettate come “migranti economiche”.
Dal 1° gennaio al 31 maggio 2021 lo stesso portale registrava quasi 33.000 arrivi nella rotta mediterranea: la nazionalità più numerosa, pari al 15,4%, era quella bangladese. Coloro che fuggono da Siria ed Eritrea cercano scampo da guerra e persecuzione, ma che dire di chi fugge dal Bangladesh?
Gli Orientamenti Pastorali sugli Sfollati Climatici, presentati il 30 marzo scorso in Vaticano dal dicastero per lo Sviluppo umano integrale, invitano ad approfondire il nesso fra emergenza climatica e migrazioni: «Tempeste feroci, uragani violenti e cicloni disastrosi continuano ad imperversare. Assistiamo allo sfollamento di un numero crescente di persone a motivo degli impatti della crisi climatica e di altre manifestazioni della crisi ecologica».
A questo nesso Combonifem aveva già dedicato il dossier di maggio-giugno 2018; nel presente numero lo riprende mettendo a confronto alcune voci istituzionali, prevalenti nel 20° Dialogo internazionale sulle migrazioni patrocinato dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim), con quelle della società civile. Sono voci di donne attente agli sviluppi del Patto globale per una migrazione sicura, ordinata e regolare e preoccupate dai ritardi dell’Accordo di Parigi.
Sono storie di vita. Le narrano gruppi umani che non si rassegnano ad abbandonare la propria terra: alcuni fanno causa ai governi, altri intraprendono iniziative per rigenerare i propri territori; altri ancora, però, non avranno scelta, dovranno “recidere il cordone ombelicale”. Per alleviare la loro sofferenza l’emergenza climatica deve essere affrontata con solidarietà e lungimiranza: emigrare dovrebbe essere una scelta, non un obbligo.
Perciò, mentre attendiamo al varco la prossima Conferenza delle Parti sul Cambiamento climatico (Cop26), raccogliamo l’appello del “Primo piano” e ci impegniamo concretamente con la Piattaforma d’azione Laudato si’.