“Vittime” è un termine che non mi piace, indica passività. Sono le “persone” che si sono messe in cammino, che hanno scelto di perseguire un cambiamento, una possibilità. Poi, però, le cose non sono andate per il verso giusto. E se proprio questo termine “vittima” vogliamo usarlo, allora bisogna riconoscerne le varie declinazioni. Si è vittime di pregiudizio, della propria arroganza, della superbia di chi si porta dentro il Dna del colonizzatore; si è vittime del benessere che va sostenuto e alimentato, della paura di chi non ci piace; si è vittime – scusate la retorica – dell’ignoranza.
E proprio qui si ritrova tutta la dannazione dei nostri tempi: si parla – e purtroppo si scrive e quindi si diffonde – senza sapere, senza conoscere, senza guardare con i propri occhi, senza viaggiare. L’Africa rimane per tanti un luogo esotico, incredibile, soffocato da malattie, conflitti e povertà. L’Africa resta un luogo immaginato più che osservato, costruito più che vissuto. La narrazione spesso viene elaborata da chi il continente subsahariano lo conosce poco o anche da chi ha ogni interesse a descriverlo come bisognoso, disperato e ancora – in modo così anacronistico – selvaggio.
L’Africa si muove
Gli africani però agiscono e reagiscono: ora la storia si vendica – in realtà fa il suo corso – e se per secoli sono stati portati via dalle proprie terre per lavorare quelle degli altri, oggi sono loro a voler popolare altre terre. Ma agli occhi dell’Occidente restano ancora “merce”. Utile nei secoli della tratta atlantica; inutile, superflua, rigettata, oggi. L’unica merce buona è quella che ha un mercato, che risponde agli interessi commerciali e finanziari o al volere degli speculatori del sesso imposto e delle mani da raccolto. “Merce” che vale finché dura, finché si può comprare e vendere e rivendere finché non serve più a nessuno. Allora è merce avariata, stantia, da gettare.
Coloro che dall’Africa si mettono in cammino da soli non possono farlo come un qualunque essere umano: non possono prendere un’aereo perché la loro cittadinanza preclude l’accesso al visto. Ci sono nazionalità africane che danno accesso a soli 6,12,15 Paesi al mondo. Ci sono persone che, per il semplice fatto di essere nate in Sudan o in Somalia, in Eritrea o in Guinea, non possono sperare di viaggiare. Né per conoscere il mondo – non hanno il diritto di fare i turisti come noi – né per visitare amici, né per provare a trovare lavoro altrove. Eppure noi occidentali questo lo facciamo continuamente.
L’Africa ancora invasa
L’Africa subsahariana è piena di “bianchi”, di imprese straniere e di multinazionali che si appropriano delle risorse di territori ricchi dove la gente è povera. Questi stranieri sono chiamati “espatriati”, ma gli africani che arrivano in Europa sono chiamati migranti irregolari, clandestini, illegali, rifugiati. Con i soldi con cui avrebbero potuto pagarsi un visto e un biglietto aereo hanno pagato i trafficanti di persone, che si considerano eroi: fanno un servizio utile per chi non avrebbe altro modo di attraversare le frontiere.
Trafficanti che, come in Niger, hanno creato un vero e proprio sistema d’impresa ben noto al governo del Paese e anche all’Europa. Equilibri e acrobazie dei leader europei che con una mano pagano i capi di Stato dei Paesi di partenza o transito per tenere l’emigrazione a bada e con l’altra pagano il governo libico (quale governo?) per impedire a chi è riuscito ad arrivare alle sponde del Mediterraneo di imbarcarsi per l’Italia.