La soddisfazione pervadeva le piazze e le strade: la protesta popolare in Sudan, pacifica e determinata, aveva prevalso e il presidente-militare Omar al-Bashir, che dal 1989 governava il Paese con pugno di ferro, era stato deposto dal suo stesso esercito.
Le manifestazioni erano dilagate a metà dicembre 2018, innescate dal precipitare della situazione economica: il rincaro di pane e carburante erano diventati insostenibili.
Nei mesi di protesta, le vittime civili erano state almeno una cinquantina, ma il 12 aprile la gente poteva celebrare: la democrazia sembrava a portata di mano, e Alaa Salah, la giovane studentessa di ingegneria che esortava la folla a resistere, era diventata il simbolo di quella pacifica rivoluzione.
Il Consiglio militare di transizione, una volta assunto il potere, ha fatto promesse per il futuro, ma il sit-in della gente è continuato, ostinatamente: settimana dopo settimana chiedeva garanzie per elezioni “vere” entro 3 anni.
Purtroppo, il 3 giugno 2019 il sogno di Alaa, e tante e tanti giovani come lei, si è rovinosamente infranto: quel sit-in pacifico, che chiedeva ai militari di realizzare passi di democrazia, è stato disperso con inaudita violenza.
Internet e altri canali di comunicazioni sono stati bloccati, ma la tragedia è trapelata comunque in tutta la sua brutalità. Cina, Russia e Kuwait hanno bloccato la condanna dell’Onu, rilanciata da Belgio, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito e Svezia.
Le vittime sono già un centinaio, a decine ripescate nel Nilo, e molti di più risultano i feriti.
I loro nomi e i loro volti sono anche quelli delle donne che il 12 aprile scorso cantavano la speranza di un sogno.