20 giugno. La Giornata mondiale del rifugiato anche quest’anno registra un nuovo record: nel 2018 quasi 71 milioni di persone sono state costrette a lasciare la loro casa o il loro Paese. Negli ultimi vent’anni il loro numero è raddoppiato: le cause sono molteplici, ma guerre e conflitti prevalgono su tutte.
Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, nel 2018 quasi 30 milioni hanno ottenuto l’asilo o una forma equivalente di protezione, circa 3,5 milioni sono richiedenti asilo e oltre 41 milioni sono persone sfollate all’interno del loro Paese.
La stragrande maggioranza di questa umanità sofferente vive in Africa, per gli annosi conflitti in Repubblica democratica del Congo, Sud Sudan, Centrafrica, Somalia, Eritrea, Nigeria, Mali, e Camerun, ma nel 2018 oltre 4 milioni di persone hanno lasciato il Venezuela.
La Siria rimane la più dissanguata, con oltre 6,5 milioni di abitanti rifugiati altrove; quasi 3.6 milioni in Turchia, circa un milione in Libano e poco meno di 700.000 in Giordania.
Save the children puntualizza che oltre 35 milioni di bambini e giovani sono sfollati, ma quello che ancora manca nelle molteplici statistiche rilanciate oggi è l’attenzione al genere.
L’Onu riconosce che nei campi profughi «l’immagine che colpisce è quella delle donne con i loro bambini. Donne spesso sole che, assieme ai propri figli, rappresentano l’80% dei rifugiati e degli sfollati presenti nel mondo. È su loro che cadono i soprusi più duri durante la fuga da casa e nella realtà del campo». Ma poco altro emerge.
I soprusi sofferti dalle ragazze siriane in Turchia o in Libano sono riportati da alcuni media, ma su molti altri prevale il silenzio. Sono realtà che rimangono nell’ombra.
Perché questa Giornata non si limiti a richiamare l’attenzione sui “rifugiati”, è necessario far emergere di più la situazione delle “rifugiate”: donne, ragazze e bambine.
Il “maschile neutro” non vale, soprattutto nelle situazioni di maggiore vulnerabilità.