Roghi. Dolosi e colposi.
Fiamme. Questo è stata l’Amazzonia nelle ultime settimane.
Incendi appiccati intenzionalmente da criminali ingaggiati dai latifondisti con l’accondiscendenza del presidente Bolsonaro. Le fiamme nella foresta pluviale più grande del mondo hanno cavalcato gli effetti del riscaldamento climatico, diventando ancora più difficili da controllare, fermare e spegnere.
Ma l’Amazzonia non è l’unica a bruciare. Ne l’unica a farlo volontariamente. In Indonesia si è riscontrato un fenomeno simile: tra gennaio e luglio sono andati in fumo 135mila ettari di selva, quasi il doppio rispetto all’intero 2018. Le autorità puntano il dito sui produttori di olio di palma, e solla loro fretta di ampliare le coltivazioni.
La mano dell’uomo è la causa anche degli incendi in atto in Angola, Zambia e Repubblica democratica del Congo, dove si è raggiunto il record di 10mila roghi nello stesso momento, mentre in Brasile ci si è fermati a 2.127. In questo caso, però, si tratta di “fuochi controllati”, accesi e spenti dai piccoli agricoltori per preparare il terreno, senza danni eccessivi. Almeno nel 90 per cento dei casi.
Il restante 10 per cento sfugge di mano e devasta l’ambiente.
Sono spontanei, e preoccupanti per questo, invece, i fuochi che hanno distrutto 2,5 milioni di ettari di boschi siberiani, un milione di ettari di tundra dell’Alaska e grandi estensioni di Artico e Groenlandia. Quest’ultimi infatti sono causa diretta del riscaldamento globale che determina un aumento dei fulmini, secca le piane e le rende più facilmente infiammabili, moltiplicando il rischio e gli incidenti anche in una regione dove prima erano rari.
A raccontarci tutto, questa estate, è stata una foto del Fire information for resource management system, il centro dati della Nasa.
Ma a parlarci di questi disastri – almeno per quanto riguarda l’Amazzonia – sono, da molto più tempo, voci di donne che ogni giorno con coraggio difendono la foresta. La loro casa. La nostra unica via di respiro.
Arrivano da Ecuador, Perù, Venezuela, Bolivia, Brasile.
Come Nema Grefa, presidente della nazione indigena di Sapara in Brasile, che cercando di opporsi alle trivellazioni delle industrie petrolifere, è stata più volte minacciata di morte.
Come Patricia Gualinga, o ancora come la sua connazionale Salomé Artanda, una leader nativa del popolo Kichwa nell’Amazzonia ecuadoriana. Dopo aver avvertito il presidente Moreno dei rischi ambientali collegati alle attività petrolifere e dopo aver denunciato i casi di abusi sessuali contro le donne indigene, Salomé e la sua famiglia sono stati attaccati e minacciati con pietre nella loro casa.
Come le migliaia di donne indigene che lo scorso agosto sono scese in piazza a Brasilia per protestare contro le politiche ambientali di Jair Bolsonaro: i dati mostrano un incremento della deforestazione negli ultimi mesi, ma Bolsonaro ha definito i numeri bugie.
Voci minacciate che tentano da anni di mettere il mondo a conoscenza di ciò che abbiamo “scoperto” solo questa estate. Ascoltiamole!